TORINO: Turandot, 16 gennaio 2018
Dramma lirico in tre atti e quattro quadri
Libretto di Giuseppe Adami e Renato Simoni
dall’omonima fiaba teatrale di Carlo Gozzi
Musica di Giacomo Puccini
Versione originale incompiuta
Direttore d’orchestra Gianandrea Noseda
Regia, scene, costumi, coreografia e luci Stefano Poda
Personaggi e Interpreti:
- La principessa Turandot Rebeka Lokar, Teresa Romano (17, 19, 23, 25)
- Il principe ignoto (Calaf), figlio di Timur Jorge de León, Diego Torre (17, 19, 25) ,Gaston Rivero (23)
- Liù, giovane schiava soprano Erika Grimaldi, Natalia Pavlova (17, 19, 23, 25)
- Timur, re tartaro spodestato In-Sung Sim
- L’imperatore Altoum Antonello Ceron
- Ping, gran cancelliere Marco Filippo Romano
- Pang, gran provveditore Luca Casalin
- Pong, gran cuciniere Mikeldi Atxalandabaso
- Un mandarino Roberto Abbondanza
- Il principe di Persia Joshua Sanders
- Prima ancella Sabrina Amè, Paola Lopopolo (17, 19, 23, 25)
- Seconda ancella soprano Manuela Giacomini ,Cristiana Cordero (17, 19, 23, 25)
Regista collaboratore e assistente Paolo Giani Cei
Maestro dei cori Claudio Fenoglio
Orchestra e Coro del Teatro Regio
Coro di voci bianche del Teatro Regio e del Conservatorio “G. Verdi”
a cura di Paolo T.Fiume
Attesissima “prima” di Turandot al Teatro Regio di Torino. Una nuova produzione, con una regia estatica e meditativa firmata da Stefano Poda. Lo spettacolo, originale e raffinato, è il frutto di una lettura attenta e approfondita della chiave psicanalitica dell’opera: nelle parole del regista, “tutto avviene nella mente, in un sogno, e l’immagine di Turandot è puramente una riverberazione nella mente di Calaf: Turandot non esiste ma allo stesso tempo vive replicata in ogni donna che abita il palcoscenico”. Sulla scena, bianchissima, ordinata, definita soltanto da pareti di carta (atemporali e neutre ma certo più giapponesi che cinesi) si stagliano sullo sfondo tre porte, che in due occasioni, i rintocchi del gong e lo scioglimento degli enigmi, si offrono quasi quale varco verso un’altra dimensione, verso quell’inconscio per cui risuonano momenti fatali. Nel corso dell’azione, ad ogni atto si completa una parte sospesa di quella testa mozza lunare delle parole del libretto, e questo sembra un riferimento particolarmente arguto quando si tratti di offrire un’immagine dell’incompletezza e dell’alterità: “Turandot è un grande affresco, un lungo poema dell’alterità e di come usciamo da noi stessi”. Ben studiata e sempre efficace la partecipazione del coro. Interessanti e ben realizzati gli interventi del balletto, a riempire una scena altrimenti piuttosto libera. Non sempre tuttavia le scelte registiche sono pienamente convincenti; ad esempio, l’inizio del secondo atto con la lunga scena delle maschere si risolve interamente in un obitorio su piattaforma rotante, in cui i movimenti dei tre protagonisti durante la preparazione di alcune salme si riducono a uno schematico ciclico ritorno al lato opposto della scena; un po’ poco per la ricchezza di sfumature ora ironiche, ora elegiache, ora malinconiche del testo.
Allo stesso modo, nella scena di indovinelli Turandot è indistinguibile dal resto delle artiste del coro; se in questo alcuni leggono la collettività del personaggio, la Turandot presente in ogni alterità femminile, il risultato oltre ad essere poco funzionale dal punto di vista scenico è pure un po’ semplicistico, dal momento che nell’opera almeno una donna non-Turandot esiste, ed è Liù. Ma più di tutto un aspetto appare limitante in questa lettura, che è poi il grande limite di ogni visione psicologica e onirica di qualsiasi melodramma, ossia il fatto che ogni conflitto e ogni tensione vengano riferite ad un solo personaggio. Per quanto efficace possa essere un’analisi archetipica di ciò che passa per la mente di Calaf, il prezzo da pagare è la “disumanizzazione” e il radicale appiattimento di tutte le altre anime, e specialmente dei loro conflitti: Turandot, Liù, Altoum, Timur, perfino Ping, Pong e Pang potrebbero essere parimenti degni di essere quel centro del mondo che Poda così accuratamente disegna per l’impavido protagonista. Le scene sono comunque di grandissimo impatto visivo, maniacalmente curate nel dettaglio e molto originali, a parte forse una chaise-longue di Le Corbusier un po’ mainstream. Parimenti di eccellente idea e realizzazione risultano i costumi.
Gianandrea Noseda dirige l’Orchestra del Teatro Regio con piglio sicuro e sonorità molto cariche ed affascinanti, con una particolare attenzione alle percussioni e un volume a tratti addirittura fragoroso. L’equilibrio con il palcoscenico ne soffre un poco, ma non capita spesso di sentire la bellissima musica di Puccini eseguita in modo così penetrante ed avvolgente. L’unico appunto possibile è per alcune scelte di tempi, Ho una casa nell’Honan su tutto, decisamente troppo marciante per tratteggiare in Ping una reale vena nostalgica. Orchestra assolutamente eccellente sotto ogni punto di vista. Va tenuto pure in conto come l’acustica del Regio sia spesso problematica e decisamente a favore della buca. Molto felice la scelta di concludere l’opera secondo l’originale incompiuto pucciniano, sulla morte di Liù.
Ottima la Turandot di Rebeka Lokar. Il giovane soprano ha un timbro perfetto per il ruolo, ricchissimo di armonici restando rotondo, avvolgente e pieno: tutte le esigenze della parte sono risolte in modo brillante, In questa reggia è veramente emozionante.
Dalla grande ampiezza e facilità in acuto Jorge de León in Calaf. Nessun dorma riesce molto bene, senza eccessi e con un buon finale. Anche le righe più impervie, pur con un po’ di spinta, non presentano esitazioni o difficoltà. Quello che si può appuntare, forse, è una certa leggerezza nel fraseggio, che porta ogni tanto ad incertezze e appiattimenti timbrici (il triplice Figlio del Cielo, io chiedo d’affrontar la prova risulta abbastanza nasale ed arretrato, sicuramente poco ardimentoso).
Applauditissima Liù: Erika Grimaldi tratteggia un personaggio perfetto con un canto commovente, perfettamente centrato sulla personalità ancillare e sacrificale ma pronta al coraggio ed al gesto estremo della fidata ed innamorata schiava. Probabilmente la migliore della serata per cura del fraseggio. Il volume non è soperchiante, ma poco importa di fronte al trasporto che trasmette mentre affronta il gravoso compito di concludere l’opera. Il timbro è caldo e corposo senza essere artefatto o gonfiato.
Molto bene anche per il Timur di In-Sung Sim e l’Altoum di Antonello Ceron, che offre una spalla praticamente alla pari nello scambio di battute con Calaf.
Inappuntabile, ben fraseggiato, limpido e brillante Marco Filippo Romano nel ruolo di Ping; bravo anche Luca Casalin (Pang), assai meno il Pong di Mikeldi Atxalandabaso.
Perfetto il Coro del Teatro Regio, di impatto magnifico e dalla sonorità perfettamente equilibrata, da incisione. Complimenti al Maestro Claudio Fenoglio.
Desidero inoltre rivolgere ai due artisti del coro infortunati nel corso della recita del 18 gennaio a causa di un cedimento della scenografia un pensiero affettuoso e gli auguri di una prontissima guarigione.
Paolo T. Fiume