FIRENZE: Carmen 4 dicembre 2018
Carmen
Opéra-comique in quattro atti
Libretto di Henri Meilhac e Ludovic Halévy tratto da Carmen di Prosper Mérimée
Musica di Georges Bizet
Prima rappresentazione: 3 marzo 1875 all’Opéra-Comique di Parigi
A pochi mesi dal debutto è già il momento della ripresa per due nuove produzioni del Maggio Musicale Fiorentino; nella fattispecie, Carmen di gennaio nella regia di Leo Muscato e la Traviata settembrina di Francesco Micheli, riprese rispettivamente da Alessandra de Angelis e Valentino Villa. La scelta di proporre contemporaneamente questi due titoli, con programmazione per così dire di “repertorio”, appare particolarmente felice: al di là dei facili accostamenti tra zingarelle e mattadori, ciò che è particolarmente interessante confrontare è il tema del rapporto con la libertà femminile e la sua centralità, chiaramente evocata anche nei titoli (c’è un motivo se la Carmen non è il Don José), e profondamente analizzata in due figure per certi versi molto affini, per certi altri antitetiche. Sia Carmen che Violetta sono per esempio oggetto di critica borghese non solo per la subordinata condizione sociale, ma specialmente per la loro condotta amorosa. Trovo importante che l’oggetto dello sdegno sia precisamente rivolto ad una libertà sentimentale e non semplicemente sessuale; quello che viene messo in discussione non è certamente il tradimento di natura carnale, che anche oggi considereremmo e forse non a torto di gusto quantomeno dubbio, ma esplicitamente la possibilità stessa di una libertà di scelta femminile, l’intrinseca intollerabilità di un mutamento dei sentimenti, sia esso autentico (in Carmen) che dolorosamente ingannatore, per un bene superiore (in Violetta), di fronte al quale entrambi i protagonisti hanno reazioni scomposte e inadeguate. Parimenti simile è il rapporto di José e Alfredo con i loro invadenti genitori, sia nel pensiero per il primo, che fattivamente per il secondo; e si può pensare che entrambe le figure abbiano un ruolo dirimente nelle catastrofi delle due vicende: in fondo, è comprensibile l’attrazione turbinosa per Carmen rispetto agli sbiaditi e fanciulleschi ricordi di una realtà tenera ed eglogica ma passata ed opprimente nella subordinazione filiale; è comprensibile il timore reverenziale di un figlio che sente chiamare a testimone del padre nientemeno che il Padreterno. E tuttavia emergono con maggiore evidenza per comparazione le profonde differenze che fanno di Carmen e Traviata due storie radicalmente differenti sia sotto il profilo psicologico che cosmologico; è proprio questo aspetto, a mio avviso, che l’arte di Muscato sottolinea in modo interessante.
Non c’è necessità di ripercorrere nei dettagli la già oltremodo ripetuta vicenda di questo allestimento; basta ricordare le polemiche sorte alla “prima” per la modifica scenica del finale originale, con Carmen che sfugge alla violenza di Don José e lo fredda con un colpo di pistola (questa volta per fortuna ben funzionante). Se questa scena nasce come monito nei confronti della tragedia del femminicidio, in effetti, appare un po’ singolare far uscire Carmen dalla sua dimensione di martirio, colpevole soltanto della propria intrinseca coerenza sentimentale, e renderla colpevole di un delitto, per quanto motivato dall’autodifesa. Nonostante questa visione di una protagonista umana, troppo umana, va detto che lo spettacolo è semplicemente bellissimo. L’ambientazione in un campo rom di tempi recenti (non contemporanei, desumiamo dalla macchina da scrivere di Zuniga e dai telefoni pubblici con cui Escamillo e Carmen si chiamano prima della corrida) non è affatto invadente, anzi, molto credibile; soprattutto è ben riuscita la tensione tra la sensuale e dionisiaca ma degradata marginalità del campo e il poco edificante e strumentale rigore del corpo di polizia. Il gruppo di roulotte di contorno a tutte le scene, che poteva risultare statico, è utilizzato invece con originalità ed efficacia. Di eccezionale perizia l’uso delle masse: nonostante un palco relativamente scarno di arredi, il coro disegna sempre dei quadri armonici, ricchi, dai movimenti naturalissimi ed equilibrati; magnifica la scena da Lillas Pastia. Sempre efficaci anche i numeri di solo e duetto, anche grazie a cantanti di ottima capacità attoriale. Ottima parte fanno le perfette luci di Alessandro Verazzi, encomiabili sia per equilibrio cromatico che per efficacia descrittiva. Parimenti curati e piacevolissimi i costumi di Margherita Baldoni.
Matteo Beltrami ha una bacchetta frizzante e sempre puntuale; la maniacale cura delle sonorità è evidente, specie in un teatro come quello del Maggio, dall’acustica ottima ma delicata. I tempi sono garbatamente spediti, con punte di piacevole frenesia nell’ouverture, senza mai divenire affrettati o approssimativi. Si apprezza in particolare l’attenzione alle voci, all’equilibrio con il palcoscenico e agli assiemi, che riescono sempre omogenei e sincronici. Taglia la maggior parte dei dialoghi più lunghi; sinceramente, una scelta che condivido. Acclamatissimo, e meritatamente, alla ribalta. L’Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino lo asseconda con impeccabile aderenza e intonazioni di perfezione rara.
La Carmen di Marina Comparato è esemplare. Il timbro è caldo e tornito, superbamente omogeneo in tutti i registri e dalla grande versatilità dinamica. Uno strumento così curato è anche impiegato con estremo rispetto e dovizia; mai un eccesso, mai una sbavatura, mai neanche per converso una trascuratezza o un momento banale. Il personaggio è estremamente convincente, la sua volubilità trasognata e quasi fanciullesca trova una molto coerente corrispondenza nel canto. Il deuxième couplet della celeberrima habanera è da brivido. Bravissima.
Roberto De Biasio è un ottimo Don José. La vocalità è libera e autorevole; quando il suono è già ripulito e ben tecnicamente risolto, piace sentire ogni tanto un timbro tenorile non troppo gravato da tentativi di eccessivo controllo specialmente in acuto, che di solito risultano poi in irrigidimenti che inficiano il risultato complessivo. Potrebbe forse tentare di rendere più omogenea la transizione al registro superiore; se gli acuti sono impeccabilmente “girati” – e infatti arrivano con squillo sicurissimo – la libertà di fraseggio nelle note di passaggio se ne gioverebbe. Ad ogni modo una prestazione maiuscola sotto tutti i profili.
Laura Giordano, Micaëla, è amatissima dal pubblico. In effetti dona dei momenti di grande poesia; la grande aria del terzo atto è encomiabile e commovente. L’acuto non è sempre pulito e tende un po’ a stringere; peccato, perché la voce è dotata di ottima lama e arriverebbe lo stesso anche tentando una maggiore rotondità del registro estremo.
Ho particolarmente apprezzato l’Escamillo di Leon Kim. Il giovane baritono coreano ha timbro imponente e uniforme, che patisce solo di qualche rara e transitoria insicurezza nei salti, ma che complessivamente lascia il segno, arrivando ricco e proiettato nonostante l’impervia distanza da percorrere in questo teatro. Molto bene la celebre canzone del secondo atto. Sicuramente una voce da seguire in futuro.
Sicuro e sempre corretto lo Zuniga di Adriano Gramigni; l’ingeneroso ruolo comprimario parecchio scoperto di Moralès è ben risolto da Patrizio La Placa. Frasquita (Eleonora Bellocci) e Mercédès (Giada Frasconi) sono ottime, cosicché il terzetto delle carte riesce benissimo. Allo stesso modo i due contrabbandieri di Dario Shikhmiri e Manuel Amati sostengono un quintetto equilibrato e piacevole. Bene anche i piccoli ruoli di Ramona Peter (venditrice di arance), Gabriele Spina (bohémien) e Leonardo Cirri (Lillas Pastia).
Speciale per efficacia, amalgama e recitazione il Coro del Maggio Musicale Fiorentino, diretto dal M.° Lorenzo Fratini. Il plauso più affettuoso e riconoscente va allo splendido Coro delle voci bianche, che si distingue non solo per la perfetta esecuzione musicale, ma anche per invidiabile arte scenica.
Paolo T. Fiume