Una proménade musicale a Macerata – di Attilio Cantore

Una proménade musicale a Macerata – di Attilio Cantore

  • 11/08/2019

 

Macerata, quieta civitas papalina dove ogni portone sembra sussurrare un segreto centenario. In questo angolo di paradiso, che per erte e scalette si arrampica con apparente disinvoltura su una collina, è come se placidamente lo spazio smemorato ogni giorno si ridestasse. Città ricca di arte, cultura… e musica. Ne è emblema l’ottocentesco Sferisterio, sorto «a diletto pubblico» per il giuoco del pallone a bracciale; poi nel Novecento, fra alterne vicende, trasmutato felicemente in tempio della lirica. Quest’anno l’arena maceratese festeggia undici lustri di attività operistica. E non è cosa da poco, in un periodo storico in cui la musica viene sempre più penalizzata. Il Macerata Opera Festival giunge infatti alla sua 55a edizione, coordinato egregiamente da un team di qualità. Imbastendo cartelloni sempre di grande interesse, il sovrintendente Luciano Messi, la direttrice artistica Barbara Minghetti e il direttore musicale Francesco Lanzillotta puntano al fare-opera lanciando uno sguardo ermeneutico sul presente; il che significa, dunque, anche sul futuro: «giacché essere nel presente significa pur sempre essere in anticipo sui tempi», se è vero quel che affermò Alexander Lernet-Holenia.

Dopo la nuance #verdesperanza del 2018, quest’anno il festival maceratese coinvolge tutta la città in un caleidoscopio di attività #rossodesiderio, ponendo al centro della programmazione gli allestimenti di Carmen, Macbeth e Rigoletto, firmati da Jacopo Spirei, Emma Dante e Federico Grazzini. Una scelta quanto mai felice, premiata dall’entusiasmo di un pubblico internazionale: ne è testimone la lunga serie di sold out, che battono il record registrato nel 2006. Il MOF si conferma decisamente come una delle più floride realtà musicali dell’estate festivaliera italiana. Un festival inarrestabile, anche quando la scarmigliata balleria della pioggia minaccia di invalidare qualche recita.

Si inizia con una “Carmen parigina” (19 luglio) dove le brucianti passioni e le ardenti rivalità maturano e si avvicendano fra le mura di un folleggiante cabaret, sul modello del Crazy Horse. Jacopo Spirei non aspira meramente a riavvicinarsi allo spirito gaio e giulivo dell’opéra-comique (alveo in cui nasce e da cui al contempo prende le distanze il capolavoro di Bizet) ma, con spirito militante, intende operare una denuncia della condizione della donna nella contemporaneità. Dunque, la gigantesca gamba con tacco a spillo glitterata, campeggiante al centro della scena, diviene per così dire una réclame della mercificazione femminile in un mondo di arroganza maschilista. La fricassée di spogliarelli e l’omelette di lap dance a ritmo di nacchere ideati dal coreografo Johnny Autin si caricano pertanto di significati traslati: non sono altro che la baldoria sfocata delle tristi creature del vizio protagoniste di un tragico universo di affetti sciupati e trascurati. Orbène, la trace gardée di questo spettacolo induce a considerare Carmen come vittima del “sistema”: una donna che lotta disperatamente per la libertà ma fallisce. Ad ogni modo la mise en scène, senza dubbio coraggiosa, non convince appieno e desta perplessità. Macerata d’altronde non è certo impreparata a qualche contestazione circa la recita inaugurale. Anche lo spettacolo che aprì la Stagione del 2018, Il flauto magico firmato da Graham Vick (di cui Spirei è allievo), aveva a suo tempo diviso il pubblico. Ma in fin dei conti non è adesso il tempo di crambem recoquere.

Piace senza alcun dubbio la direzione musicale di Francesco Lanzillotta, alla guida dell’Orchestra Filarmonica Marchigiana. La sua è una squisita Carmen “d’autore”: si opta per i recitativi parlati, seppur con alcuni tagli, seguendo il canone dell’opéra-comique; vengono restaurati alcuni pezzi rarissimamente eseguiti, come l’esilarante scène et pantomime di Moralès (dopo il duetto con Micaëla all’inizio del primo atto) e il duetto in versione integrale del duello à coups de navaja fra Don José ed Escamillo. Con ammirevole bilanciamento sonoro e stilistico, Lanzillotta disegna un’esecuzione attenta ai particolari, rendendo efficacemente ragione all’eclettismo della magistrale partitura. Il Coro Lirico Marchigiano “Vincenzo Bellini” è preparato da Martino Faggiani.

Performance altalenanti per il cast. Irene Roberts, forse frenata dalle sfrenate coreografie di Johnny Autin, non dà certo il meglio di sé. Matthew Ryan Vickers mette in campo un bel timbro vocale ma costruisce un Don José un tantino impacciato, soprattutto nel feu de l’action. David Bizic è un Escamillo cristallizzato nel suo erculeo dinamismo. Ottima prova per Valentina Mastrangelo nel ruolo di Micaëla: non troppo valorizzata dalla regia, si fa largamente apprezzare per precisione tecnica ed equilibrio espressivo. Stefano Marchisio sfoggia con disinvoltura pratica della scena e tecnica solida nell’affrontare la rarissima scène et pantomime di Moralès, gemma musicale da operetta insidiosa per le numerose note sopra il passaggio. Il cast è completato brillantemente da Tommaso Barea (Le Dancaïre), Saverio Pugliese (Le Remendado), Francesca Benitez (Frasquita), Adriana Di Paola (Mercédès) e Gaetano Triscari (Zuniga).


 

Il 20 luglio è la volta del Macbeth firmato da Emma Dante, spettacolo che non si fatica a considerare un autentico capolavoro. Nato due anni fa al Teatro Massimo di Palermo, ripreso al Teatro Regio di Torino, al Festival di Edimburgo – vincendo il premio Herald Angel – adesso giunge per la prima volta allo Sferisterio. Un Macbeth dal pulsante sentimento mediterraneo, dove per geografica virtù elicoidale le gelide terre di Scozia incontrano quelle della Sicilia: la foresta di Birnam viene emblematizzata da una distesa di fichi d’india impietosamente indocile, fatalmente minacciosa, selvaggiamente ancestrale. Un Macbeth dove finanche i battiti del cuore sfuggono all’ordine consueto del loro ritmo, vieppiù nell’onirismo della claustrale “gran scena” del sonnambulismo dove tutto è così disperatamente convergente, nel momento in cui una schiera di lettini ospedalieri assedia l’implacabile Lady indagandola nelle tenebre della coscienza: nell’incertezza saliente dei sospiri, la consorte di Macbetto prende coscienza che ormai «sfar non [si può] la cosa fatta» e allora il disfacimento diviene l’ultima ostinata forma di resistenza. Un Macbeth dove più marcatamente l’elemento femmineo ne costituisce il nucleo psicologico-drammaturgico, con tre crocchi di streghe gravide per miracolo di orgiastica fecondazione: il loro ventre gonfio allo stesso tempo è custodia accudente di vita e ferale medium divinatorio per ciò che reclama a gran voce necessità di avveramento. Un Macbeth che coagula saperi e visioni per sinestesia: con la carcassa del cavallo, montato da Macbetto nel primo atto, derivante dall’iconografia quattrocentesca del Trionfo della morte; con il corpo del re Duncano (Francesco Cusumano) deposto e lavato come un Cristo medievale nel Finale del primo atto, per meglio iconizzare – in imperturbabile rigore processionale – l’irriducibile sacertà dei viventi nelle loro fibre minime: come un lascito, una sorta di rivelazione che si appella. L’immensa carica affabulatoria del teatro verdiano ne risulta decisamente esaltata.

Come è noto Verdi, già mesi prima della première, era consapevole che «le cose da curare molto in quest’opera sono: Coro e Machinismo». I due aspetti sono stati curati con grande precisione anche per l’allestimento maceratese. Il Coro Lirico Marchigiano “Vincenzo Bellini”, sotto la guida di Martino Faggiani e Massimo Fiocchi Malaspina, dà ottima prova di sé, prolungando vibrazioni emotive nello struggente «Patria oppressa». L’imponente spazio scenico della arena maceratese è stato brillantemente gestito da Carmine Maringola ed esaltato dal laminato gioco di luci di Cristian Zucaro. Di sicura suggestione le coreografie di Manuela Lo Sicco e i costumi di Vanessa Sannino. Riallacciandosi visceralmente al pensiero shakespeariano, anche a livello visuale ogni cosa è pervasa da un rapporto dicotomico-fondativo fra il sangue e le tenebre, declinato in tutte le varie e possibili nuances.

Sul podio, Francesco Ivan Ciampa con eleganza e vigore conduce trionfalmente sull’itinerario prescelto l’Orchestra Filarmonica Marchigiana: la propria visione d’insieme della drammaturgia degli accadimenti sonori dell’opera viene sostanziata da attenzioni e intenzioni di lettura frutto di una millimetrica cura per ogni dettaglio. Esempio ammirevole di un autentico e vincente sodalizio fra idéal e faire.

Saioa Hernandez debutta con pieno successo il ruolo di Lady Macbeth, affrontando con senso di naturalezza i tratti sempre cangianti e multiformi del personaggio: audacia, ferocia, ambizione. L’interpretazione della ‘scena’ della lettera («Vieni t’affretta!»), del brindisi («Si colmi il calice») e del sonnambulismo («Una macchia è qui tuttora…») infiammano il pubblico. Fonte di irresistibile fascinazione sono, in special modo, i suoi acuti sferzanti, il suo imperioso registro medio e i suoi ruvidi gravi di petto. Al suo fianco c’è il Macbeth di Roberto Frontali, aderente con veterana maestria alla “parola scenica” verdiana; il baritono romano domina la scena con allure teatrale e straordinaria incisività vocale. Alex Esposito, dans une forme éblouissante, debutta il ruolo di Banco con esiti di altissima qualità: l’eccezionale amalgama timbrico denso e brunito commuove segnatamente nell’Adagio del secondo atto, «Come dal ciel precipita». Ragguardevoli le performance dei due tenori: a patto di perdonare qualche lieve forzatura vocale, Giovanni Sala è un impeccabile Macduff; ottima prova per Rodrigo Ortiz nei panni del figlio di Duncano, Malcom. Completano il cast Fiammetta Tofoni (Dama di Lady Macbeth), Giacomo Medici (Medico), Cesare Kwon (Domestico/Sicario/Araldo).

 

 


Chiude la proménade maceratese il Rigoletto (21 luglio) firmato da Federico Grazzini. Non una qualche sorta di Padania cavalleresca e favolistica ma uno scalcinato luna park di periferia fa da sfondo alla vicenda. E allora, invece della consueta bieca corte gonzaghesca, dove vibrano risate e catessiche impazienze, ecco un laido clamore da tabarin distillato da ciarlatani che giocano a fare malavitosamente gli spacconi. La «ributtante immoralità ed oscena trivialità» del soggetto di Hugo è rigorosamente conservata: lo spettacolo traccia gli elementi disegnativi di un perimetro maledetto in cui regna ovunque l’amoralità, con tutto un corollario di uomini di eccellenza e di uomini di soccombenza. Rigoletto – qui senza alcun tipo di fisica deformazione – è signore e vittima di un tale universo di squallidi divertimenti: con frac rosso, viso impiastricciato e parrucca da clown, arranca sulla soglia dell’ignoto, oppresso dal vuoto cardinale della sua irriducibile alterità. Sul retroscena dei goliardici bagliori da baccanale stride l’esistenza candida di Gilda, miseramente reclusa in una squallida roulotte: ragazza cosciente della sua esclusione, vagheggiante unicamente l’esile mito de «le delizie dell’amor» con il suo Gualtiero. Hanno dato corpo alla regia le scene di Andrea Belli, i costumi di Valeria Donata Bettella e le luci di Alessandro Verazzi riprese da Ludovico Gobbi.

Lucida e penetrante la direzione d’orchestra di Giampaolo Bisanti, esaltante i contrasti della partitura, gli sbalzi d’energia, gli spasimi, l’incredibile libertà di scrittura musicale. In ottima forma il Coro Lirico Marchigiano. Il baritono mongolo Amartuvshin Enkhbat dimostra un incessante miglioramento delle qualità vocali. Il suo Rigoletto è sbalorditivo per forza scultorea nel canto, disinvoltura scenica e profonda immedesimazione. Chissà in futuro non diventi un artista di riferimento per questo ruolo. Euforizzante la performance di Enea Scala, un Duca di Mantova a dir poco perfetto, smargiasso e affascinante: l’impervia parte tenorile è assolta con l’eccellente maestria che gli è propria. La Gilda di Claudia Pavone è caratterizzata da elegante e cesellata espressività; il soprano, dalla forte presenza emotiva, è dotato di scintillante e levigata omogeneità timbrica. Simon Orfila e Martina Belli costituiscono un’affiatata coppia Sparafucile-Maddalena. Molto bene la Giovanna di Alessandra Della Croce. Il Conte di Monterone di Seung-Gi Jung non è così terrifico come di consueto. Risulta sensibilmente carente il Marullo di Matteo Ferrara. Migliori i suoi “compagni di bagordi”, Vasyl Solodkyy (Borsa) e Cesare Kwon (Conte di Ceprano). Completano garbatamente il cast Anastasia Pirogova (Contessa di Ceprano), Gianni Paci (Usciere), Raffaella Palumbo (Paggio).

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