BERGAMO: L’elisir d’amore, 5 dicembre 2021 a cura di Nicola Salmoiraghi
L’ELISIR D’AMORE
Melodramma giocoso in due atti di Felice Romani
Musica di Gaetano Donizetti
Prima esecuzione: Milano, Teatro alla Canobbiana, 12 maggio 1832
Edizione critica a cura di Alberto Zedda
© Casa Ricordi, Milano
Direttore Riccardo Frizza
Regia Frederic Wake-Walker
Personaggi e Interpreti:
- Adina Caterina Sala
- Nemorino Javier Camarena
- Belcore Florian Sempey
- Dulcamara Roberto Frontali
- Giannetta Anaïs Mejías
- Maestro delle cerimonie Manuel Ferreira
Scene Federica Parolini
Costumi Daniela Cernigliaro
Lighting design Fiammetta Baldiserri
Assistente alla regia Lorenzo Ponte
Assistente ai costumi Marta Solari
Assistente alle luci Emanuele Agliati
Orchestra Gli Originali
Maestro al fortepiano Daniela Pellegrino
Coro Donizetti Opera
Maestro del coro Fabio Tartari
I burattini in scena sono di Daniele Cortesi
Nuovo allestimento della Fondazione Teatro Donizetti
Teatro Donizetti, 5 dicembre 2021
Prima di iniziare a scrivere de L’elisir d’amore, che è l’ultima delle tre produzioni operistiche che ho visto a Donizetti Opera, occorre registrare il grande successo ottenuto da questa edizione. La città e non solo si è stretta intorno all’Istituzione, riempiendo il Teatro Donizetti e il Teatro Sociale ad ogni replica, vuoi per merito della voglia di rinascita dopo il tempo più buio della pandemia, vuoi per la qualità delle proposte artistiche, ma soprattutto grazie all’innegabile capacità del direttore artistico Francesco Micheli di sapere creare “l’evento”, avendo la mercuriale capacità di connettersi al tessuto sociale con sensibilità, intelligenza ed entusiasmo. Il primo “Bravi” va quindi a tutto lo staff che ha contribuito a fare del Festival un luogo culturale che ha significato un ristoro per lo spirito da poter frequentare.
L’Elisir di è avvalso della regia di Frederic Wake-Walker, con l’impianto scenico di Federica Parolini, i costumi di Daniela Cernigliaro, le luci di Fiammetta Baldisseri. Tutto ha contribuito a creare uno spettacolo di assoluta piacevolezza, colorato, a tratti molto poetico, leggero e volatile come il palloncino trasparente che Nemorino lascia sfuggire di mano al termine di “Una furtiva lagrima”. La vicenda si immagina in un’epoca senza tempo, forse oggi forse chissà, come sfondo la facciata del Teatro Donizetti, in una piazzetta circondata dai portici, che sono poi quelli davanti allo stesso Teatro. In un mondo sospeso e fiabesco, dove i più piccoli giocano a impersonare i personaggi della vicenda, a loro volta vestiti con le fogge dei burattini (che sono una delle massime espressioni del Teatro di strada bergamasco, ricorda il regista), i piani si confondono e si sorridono. Come facciamo noi in platea, probabilmente consapevoli di non trovarci di fronte a una lettura rivoluzionaria – ma non si può fare sempre la rivoluzione – ma quanto, quanto rasserenante e “positiva”. Per cui certamente volentieri tutto il pubblico si abbandona all’invito del personaggio inventato del simpatico Maestro delle cerimonie (Manuel Ferreira), che prima dell’inizio della recita ci prepara a cantare “Cantiamo, facciam brindisi a sposi così amabili. Per lor sian lunghi e stabili i giorni del piacer” per intonarlo poi all’inizio del secondo atto insieme ad interpreti e coro, sventolando bandierine colorate con il testo scritto. E ci scappa anche un po’ di commozione, pensando che quel “sian lunghi e stabili i giorni del piacer” sia dedicato proprio a Bergamo, che ha pagato un prezzo così alto al Covid e che è stata, insieme a Lodi e dintorni, l’epicentro dell’esplosione del virus prima in Italia e poi in Europa. Sian davvero lunghi e stabili i giorni del piacer.
Riccardo Frizza, direttore musicale di Donizetti Opera, fa faville sul podio dell’Orchestra Gli Originali, formata da strumenti davvero d’epoca, e non copie. Il La è così accordato a 462 Herz, si scende di un semitono e si ritrova la sonorità che doveva essere quella dei tempi di Donizetti. Risultato assolutamente affascinante, dagli impasti timbrici affatto insoliti e di sospeso incanto. Frizza, con i suoi strumentisti, non ha solamente reso l’atmosfera e il gusto di un tempo, ma si è lasciato andare al gioco (che, come tale, è serissimo) con trasporto, passione e commosso lirismo. Poi, vivaddio, si è ascoltato un Elisir integralissimo, con tutte le virgole, i punti e virgola e quelli esclamativi. Raddoppi, pertichini, non manca nulla. Che Elisir fosse un capolavoro lo si sapeva, così è ancora più chiaro il perché lo sia.
Sul palcoscenico, nel ruolo di Nemorino, una star tenorile del momento, Javier Camarena, che ha ribadito tutti i meriti del suo rango. Non solo ha creato in scena un personaggio disarmantemente tenero (ricordava la Gelsomina de La Strada) ma ha cantato, né più né meno, da padreterno. Pasta vocale di suggestiva morbidezza, emissione controllatissima, tutta sul fiato, acuti e sovracuti luminosi e svettanti, fraseggio da fuoriclasse, accenti ora trepidanti ora accesi di passione: un capolavoro che ha trovato il suo culmine con “Una furtiva lagrima” cesellata a mezza voce, con una varietà di colori e di intenzioni tali da tenere con il fiato sospeso per l’emozione. E le salite al vertice del pentagramma non sono solo esornative ma hanno sempre funzione espressiva.
La vera sorpresa è stata rappresentata però dall’Adina di Caterina Sala, 21 anni e un talento incredibile. Se la ragazza non commetterà errori e non smetterà di perfezionarsi credo ne sentiremo parlare molto e a lungo in futuro. Disinvolta in scena, voce di soprano lirico-leggero ma di caratura piuttosto importante, in possesso di una tecnica che pare già considerevolmente agguerrita, sa accentare, interpretare, porgere la frase con gusto; ed è sfrontatamente acrobatica nella coloratura, sapendola governare a dovere. In questa edizione di Elisir è stata introdotta la sua aria finale alternativa dall’edizione critica curata da Alberto Zedda, “Ah, l’eccesso del contento”, probabilmente scritta da Donizetti per Fanny Tacchinardi, quando l’opera andò in scena per la prima volta a Parigi nel 1839. Una vera e propria (lunga) girandola di fuochi d’artificio vocali, tesa a stupire l’ascoltatore, che Caterina Sala ha espugnato con la grinta della vera primadonna e la sicurezza della belcantista di razza, volteggiando su puntature, abbellimenti e variazioni con stupefacente scioltezza. Dopo l’aria, per lei un autentico, interminabile trionfo.
Roberto Frontali ha confermato di essere grande artista ed eccellente cantante nei panni di Dulcamara. Il baritono conserva sempre voce importante, ampia, timbrata, basata su tecnica solidissima, e che piega continuamente al servizio di un fraseggio vario e interessante. Il suo è un Dulcamara non istrionico o sopra le righe, ma signorilmente sornione, gaglioffo in guanti banchi. Ti frega con il sorriso e un senso di canagliesca superiorità. Bel personaggio, fuori dai binari consueti.
Lodi anche per il Belcore amabilmente caricaturale di Florian Sempey; bella voce baritonale, ben emessa, di colore accattivante e autorevole sonorità. Questo personaggio, tra i quattro protagonisti, rischia di sempre di essere quello più defilato nella resa teatrale e musicale; in questo caso non lo era.
Da non dimenticare anche la brillante Giannetta di Anais Mejias, oltre al contributo del Coro Donizetti Opera preparato da Fabio Tartari.
Successo al calor bianco al termine, tra felicità e già un pizzico di nostalgia. In un Festival di tre titoli (ma si spera in quattro in un futuro non troppo lontano) già azzeccarne due è raro. Tre su tre sa di quasi miracolo. O forse no, solo di serio lavoro.
Nicola Salmoiraghi