TEATRO ALLA SCALA: Juan Diego Flórez – 18 maggio 2022 a cura di Nicola Salmoiraghi
Pianoforte Vincenzo Scalera
Teatro alla Scala, 18 maggio 2022
Serata di quelle da scrivere negli annali, il recital di Juan Diego Flórez al Teatro alla Scala, un’entusiasmante kermesse di canto che ha trascinato il Piermarini (esaurito) al delirio, con standing ovation continue, applausi ritmati e “attiva” partecipazione del pubblico. Un’ora e mezza di (impegnativo) programma seguito da un’ora abbondante di bis, praticamente un altro concerto, a testimoniare la generosità di un artista la cui statura e maestria hanno oggi ben pochi paragoni.
Sgomberiamo subito il campo dall’obiezione degli incliti e colti, che con il loro mignolino alzato censureranno l’aspetto troppo pop dell’evento, con il tenore peruviano a suonare (bene, tra l’altro) la chitarra nei primi tre bis e il pubblico ad accompagnarlo nel canto. Io ho visto una sala stracolma di persone con dipinta sul volto la gioia di ascoltare una voce d’oro, in forma smagliante e la carica finalmente liberatoria di ritrovarsi tutti insieme ad un’autentica festa del canto. E ciò basti. L’opera è anche questo. Forse è soprattutto questo.
Flórez ha 49 anni e canta da professionista ormai da 26 anni, eppure sul palcoscenico l’allure è sempre quella del ragazzo, con un tocco di fascinosa maturità, e la voce conserva una freschezza e uno smalto che hanno del miracoloso, forte di una tecnica solidissima, su cui sempre si basa la longevità del mezzo.
Accompagnato dal suo pianista di sempre, il bravissimo Vincenzo Scalera, che ha avuto anche due momenti solistici, il tenore ha aperto il recital con una luminosa interpretazione di “O del mio dolce ardore” da Paride ed Elena di Gluck, seguita da delicate e svettanti esecuzioni di “Amarilli, mia bella” di Giulio Caccini e “Vittoria, mio core!” di Giacomo Carissimi. Alla poesia miniata di Vincenzo Bellini (che fraseggio, che dizione perfetta, che adamantina scansione della parola cantata in “Malinconia”, “Per pietà bell’idol mio”, “La ricordanza”) fa seguito l’omaggio rossiniano con “Oh come il fosco… Quell’alme pupille” da La pietra del paragone e l’iper virtuosistica “La speranza sua soave” da Semiramide. In questi brani Flórez ha ribadito di essere ancora sovrano. A parte l’aderenza stilistica – ma ogni variegato repertorio affrontato durante il concerto era stilisticamente inappuntabile – la souplesse e sicurezza nelle agilità sgranate di forza, le sciabolanti folgori di acuti e sovracuti, l’infallibile precisione nello sgranare le colorature senza mai perdere di vista il senso della frase sono tutte lì, intatte.
Nella seconda parte alla distesa e morbidissima cantabilità di Tosti (“Sogno”, “Seconda mattinata”, “Aprile”), hanno fatto seguito, in esaltante crescendo di bravura, “Seul sur la terre” da Dom Sébastien, roi de Portugal di Donizetti l’incredibile e soggiogante resa di una pagina verdiana “Brezza del suol natio… Dal più remoto esilio ” con relativa fiammeggiante cabaletta “Odio solo, ed odio atroce” da I due Foscari e un’appassionata “Torna ai felici dì” da Le Villi di Puccini, ogni brano cantato ad altissimo livello non solo vocale ma anche espressivo.
L’inebriante girandola dei bis è iniziata con il tenore, che accompagnandosi con la chitarra ha cantato “Core ‘ngrato”, “Guantanamera” e “Cuccuruccucù Paloma”, con grandissimo gusto, suggestive sfumature e delicatissimi melismi da lasciare con il fiato sospeso per l’ammirazione. E poi, fuoco alle polveri: “Ah mes amis… Pour mon âme” (come raggiavano quei do scagliati come saette) da La fille du régiment, “Che gelida manina” da La Bohème, “Porquoi me réveiller” da Werther (vi rendete vagamente conto di cosa significhi arrivare a questi brani dopo tutto quello che era venuto prima con la facilità di chi beve un bicchier d’acqua? Senza sbagliare una nota, un fiato, senza un cedimento, una debolezza?).
Ma non finisce qui, ed ecco la volta del fuego latino di “Jurame” e di una “Granada” a dir poco travolgente, dove Flórez si concede anche il lusso di sfrontati abbellimenti “in stile”, e poi ancora, con un Teatro che ormai ruggisce il suo entusiasmo, “La donna è mobile” da Rigoletto e, in chiusura, vezzo da recital di un interprete gigantesco, che pareva aver cominciato a cantare cinque minuti prima, “Nessun dorma” da Turandot, chiosato da un incandescente “Vincerò”, che in questo contesto ha rappresentato un’elettrizzante ciliegina sulla torta.
Uscendo da Teatro, insieme a una moltitudine di persone felici di esserci state, mi sono ricordato una volta di più del perché amo da più di cinquant’anni il canto e la voce: perché esistono artisti come Juan Diego Flórez.
Nicola Salmoiraghi