GENOVA: La Traviata – Giuseppe Verdi, 12 gennaio 2025 a cura di Silvia Campana
Allestimento della Fondazione Teatro Carlo Felice di Genova
Teatro Carlo Felice, 12 gennaio 2025
Sicuramente non privo di spunti l’allestimento de “La Traviata” creato da Giorgio Gallione nel 2016 per il Teatro Carlo Felice di Genova e qui riproposto per la terza volta.
Il regista genovese intende qui spostare la sua visione del dramma su di una chiave onirica e concettuale in cui tutto sembra svolgersi nella memoria della protagonista dove, quasi in un flash back, le immagini di un passato solo apparentemente spensierato si accostano all’idea del dolore e della malattia, qui simboleggiata dalla costante presenza in scena del Dottor Grenville.
Tutto ciò viene visualizzato attraverso le stilizzate scene di Guido Fiorato che contribuiscono a punteggiare il dramma con pochi elementi simbolici di un certo effetto, declinati attraverso una luce glaciale che sembra avvolgere il tutto.
All’interno di questo contesto non sembra trovare posto però un taglio registico convincente, infatti l’affastellarsi di variegati elementi sovrapposti e non collegati fra di loro unitamente alla presenza di alcuni danzatori, parcellizzano una lettura cui avrebbe forse giovato un taglio più tagliente ed asciutto quanto certo più fedele allo stile verdiano, soprattutto in quest’opera dove tutto è affidato alla parola ed alle sue conseguenze.
L’essenzialità della drammaturgia non trova dunque un forte riscontro in questa lettura interpretativa dove il moltiplicarsi delle presenze viene spesso a vanificare la concentrazione teatrale, con un risultato che rischia anzi di vanificarne la potenza (II Atto).
Assai interessante la prova offerta dal cast impegnato in palcoscenico che, per molti aspetti, sembrava volersi distaccare da uno schema interpretativo consolidato alla ricerca di più approfondite dinamiche espressive.
Carolina López Moreno tratteggia una Violetta totalmente priva di fronzoli (eccetto quelli che la sua professione le impone), una giovane donna priva di illusioni e ben consapevole del tempo che le resta cui l’incontro con il giovane Alfredo sembra donare un inaspettato jackpot affettivo. Così ancor più dura sarà la rinuncia e forte il rancore nei confronti dell’anziano Germont, rappresentante di un mondo ed un pensiero che non le sono mai appartenuti e di cui anzi è sempre stata vittima.
La vocalità del soprano è morbida e rotonda, l’emissione omogenea, sempre assai ben dominata tecnicamente e caratterizzata da una chiave espressiva personale ed assai convincente che un attento gioco di fraseggio (dominato a tratti da un accento nervoso e quasi frustrato) porta ad elevati risultati espressivi (III Atto) di contemporanea definizione.
Molto bene Francesco Meli che, sempre alla ricerca di nuove sfumature espressive nel tessuto verdiano, definisce il suo Alfredo attraverso la morbida vocalità ed un mobile e diversificato gioco di accenti e mezzevoci.
Concentrato su di un’interpretazione quasi esclusivamente teatrale Roberto Frontali trova nel suo Germont una giusta chiave di lettura che va quasi a congiungere l’esasperante atteggiamento paterno con la sua totale disfatta a fronte dell’ineluttabile.
Completavano il cast Carlotta Vichi (Flora), Chiara Polese (Annina), Roberto Covatta (Gastone), Claudio Ottino (Barone Douphol), Andrea Porta (Marchese d’Obigny), Francesco Milanese (Dottor Grenvil), Loris Purpura (Domestico di Flora), Giuliano Petouchoff (Giuseppe) e Filippo Balestra (Commissionario).
Molto bene il coro del teatro diretto da Claudio Marino Moretti.
Alla guida dell’orchestra del Carlo Felice Renato Palumbo trovava giusta intensità e compattezza.
Il teatro esaurito e il grande entusiasmo da parte del pubblico presente confermava ancora una volta l’assoluta popolarità di questo celebrato titolo verdiano.
Silvia Campana