Cronache dall’Oriente: Turandot – Macao 1-4 ottobre 2016
TURANDOT
Opera in tre atti di
Giacomo Puccini (finale completato da Franco Alfano)
Su libretto di Giuseppe Adami e Renato Simoni
Nuova produzione: del Macao International Music Festival
Direttore: Lü Jia
Regia: Giancarlo del Monaco
Scene e costumi: William Orlandi
Personaggi e Interpreti:
• Turandot: Dragana Radakovic (1, 3/10), Xiu-Ying Li (2, 4/10)
• Calaf: Jorge de Leon (1/10), Warren Mok (2/10), Rudy Park (3, 4/10)
• Liu: Lana Kos (1, 3, 4/10), Valeria Sepe (2/10)
• Timur: Igor Durlovski
• Ping: Marcello Lippi
• Pang: Giorgio Trucco
• Pong: Blagoj Nacoski
• Mandarino: Daniele Piscopo
• Imperatore Altoum: Li Xiang
• Ancelle: Sofia Janelidze, Teresa Gargano
National Chorus of Korea
Macao Youth Choir
Macao Orchestra
Mi si consenta, data l’importanza del viaggio non proprio fuori porta e la diversità della meta, una digressione sulla città di Macao e sul suo teatro. Macao è una minuscola appendice della Cina a statuto speciale, situata sul lato occidentale del delta del fiume delle Perle, a sud di Hong Kong. Annessa al Portogallo nella seconda metà del XVI secolo, conserva ancora molto del dominio occidentale , pur dopo il suo rilascio nel 1999: in primis la nomenclatura delle strade, per la stragrande maggioranza intitolate a personaggi iberici e riportate su composizioni in maiolica a fondo bianco e inchiostro blu. Riguardo invece alle architetture, fatta eccezione che per un centro storico di tradizione mediterranea e pur sfigurato da innumerevoli insegne commerciali lampeggianti incomprensibili scritte in cinese, si conservano facciate di edifici neoclassici abilmente tagliate dal resto dell’edificio originale e demolito, e conservate quali ingressi di edifici che spesso superano i 25 piani. Macau, come la chiamerebbero i portoghesi, si alimenta di un’economia quasi essenzialmente basata sul gioco d’azzardo e sulla vendita di preziosi griffati. Non a caso è qui che possiamo trovare il casinò che dal 2013 detiene il primato mondiale per grandezza: un edificio emblematico di ben 58 piani di luminescenti giochi di colori su fondo dorato. Al suo interno, oltre alle sale da gioco, fanno bella mostra oggetti scultorei di dimensioni ragguardevoli e inestimabile valore, oltre alle immancabili boutique ed un hotel extra lusso. E sembra proprio essere il lusso il lite-motive di questa località dal clima tropicale: decine di casinò, hotel di lusso, grattacieli, auto lussuose, centinaia di gioiellerie che espongono migliaia di orologi (preferibilmente Rolex, ma non solo…), statuine d’oro e monili di giada. E ce ne sarebbe da dire ancora, ma mi limiterò a sottolineare un’economia che funziona, come un orologio.
Ed è esattamente come un orologio che ho visto funzionare il teatro, o meglio, il Centro Culturale di Macau. Il teatro in realtà non è che una piccola parte di un edificio immenso che ospita mostre d’arte e chissà cos’altro ancora. La prima impressione che si ha è quella imposta da un’architettura essenziale, minimalista e ipertecnologica. Il contrasto con le nostre abitudini è forte. Il palco scenico molto grande, la sala capace di ospitare non meno di un migliaio di spettatori. Ma, si ha l’impressione di stare per assistere ad una conferenza! Va detto che le poltrone sono assai comode e non si corre il rischio di assistere alla visione dell’acconciatura di chi ci sta davanti, questo grazie ad un semplice accorgimento sulla disposizione delle poltrone. Ma si sa, progettare un teatro non è cosa facile, e per quanto si sia fatto bene in termini di visibilità, forse si poteva fare meglio per quel che concerne l’acustica. La buca è molto profonda, tanto da occultare totalmente l’orchestra alla vista e persino il gesto del direttore, un dettaglio non da poco per gli amanti della barcaccia (peraltro inesistente). Al contempo, trovo doverosa una riflessione: data la difficoltà sempre più dilagante di tenere basso il volume dell’orchestra, non sarebbe il caso di rivedere l’architettura anche dei nostri teatri?
Veniamo alle questioni di carattere organizzativo, argomento volto più agli addetti ai lavori, e che forse guardano ancora con un poco di sospetto a queste nuove ed emergenti realtà. Vanno menzionati a tal proposito Cristiano Chong Sai Kit, giovanissimo ed efficiente direttore di produzione e Maria de Fatima Beirao de Almeida Antunes, oltre a tutto lo staff impegnato anche nottetempo in una gestione non facile. Una sola parola potrebbe riassumere il tutto: perfetto. Lo sono nella logistica, così come per i trasporti puntuali, nella sartoria, nel trucco e nel parrucco, e nell’offrire a tutti il servizio mensa. Inappuntabili e sempre pronti a restituire un sorriso. Tanto precisi e volenterosi quanto ospitali. Tanto precisi nei pagamenti, anche in parte anticipati, quanto pignoli nelle questioni contrattuali. In tutto questo c’è però un “ma”: nuovi in quella che per noi occidentali è una tradizione teatrale ultracentenaria, e per quanto precisi e disciplinati oltremisura, molto inclini ad un artigianato di fine fattura e conseguentemente distanti da quel tocco che in buona sostanza tratteggia il mondo dell’arte: l’imperfezione, caratteristica della personalità umana.
Siamo finalmente a parlare dello spettacolo e dei suoi artefici. Per onestà intellettuale, non nascondo di aver assistito, come spesso mi accade, a prove musicali e di regia, correndo quel rischio che un mio caro amico regista e docente dell’accademia di Brera Giacomo Agosti mi ha fatto notare, ossia di lasciarmi “adottare”, per non dire influenzare, da quella rete di amicizie che inevitabilmente si va formando nella frequentazione degli artisti. Un rischio che io stesso potrò dire scongiurato solo dopo aver riletto quanto sto per raccontare.
William Orlandi, con i suoi due assistenti Ilaria Ariemme per i costumi e Aurelio (n.p.) per le scene, è senza minimo dubbio la colonna portante di questa rappresentazione che si poggia con tutta la sua mole su di un’abile costruzione scenica e su costumi ben pensati e di ottima fattura. Al limite della crudeltà, ma efficace, la regia di Giancarlo Del Monaco che muove taluni pezzi sullo scacchiere e ne costringe altri all’immobilità più assoluta anche per più di mezz’ora. La gestualità è ridotta al minimo indispensabile, con piccoli e brevi passaggi che subito riportano gli interpreti a congelarsi in posizioni talvolta difficili da sostenere anche per brevi momenti. L’idea funziona, la principessa di ghiaccio congela gli astanti terrorizzandoli con l’aura della sua sola esistenza. Un plauso va alle luci di Wolfgang von Zoubek la cui grande professionalità ha permesso di portare in risalto le non facili idee di scena e regia, una in particolare, l’apparizione di Turandot all’interno di una luna che appare sospesa e tanto reale da stupire ed incantare il pubblico. Forse un tantino meglio si sarebbe potuto fare all’apertura del terzo atto, a mio personale avviso un tantino troppo buia. Non di meno terrei a menzionare quelle figure di cui raramente si parla ma che sono fondamento nella costruzione di quello che sarà il risultato finale. Elena Sacconaghi, assistente di regia, una figura dolcissima e di grande esperienza che con sapiente maestria ha svolto il lavoro più duro, quello di dare forma ad una pietra grezza e di mettere il Maestro nelle condizioni di poter dare “il tocco finale”. Chun Koo, Maestro del coro, e che coro il National Chorus of Korea! Lo stesso dicasi del coro delle voci bianche, il Macao Youth Choir. Il Maestro Roberto Moretti, pianista, maestro collaboratore instancabile, appassionato e appassionante, e sempre molto ben preparato. Pun YuanYuan l’abilissima coreografa delle dodici “femmine ciarliere”, in realtà teenager non ancora professioniste prese dal Macao Conservatory School of Dance, e trasformate all’uopo in incantevoli e coordinatissime ancelle addette allo strascico di Turandot. Bene anche il balletto ispirato alle arti marziali dei giovanissimi presi da Hou Khong MiddleSchool e coreografati da Liu Yinghong. Non ultima la coreografia di Chen Xia Hui che ripescando tra le giovanissime ancelle di cui prima ne fa delle sensuali odalische da offrire a Calaf nel vano tentativo di dissuaderlo dal perseguire i suoi scopi.
La direzione dell’ottima Macao Orchestra è affidata al Maestro Lu Jia, eccellenza cinese e direttore musicale del Cultural Center di Macau, i cui meriti si conoscono bene in tutto il mondo. Le Turandot sono due, i soprani Dragana Radakovic, star internazionale di nazionalità serba che non ha bisogno di presentazioni, e Xiu-Ying Li di nazionalità cinese dotata di voce potente, buon gusto e una dizione pressoché perfetta, a ciò va aggiunta la presenza scenica che per sua natura non potrebbe essere più appropriata. Tre i tenori a sostenere il ruolo di Calaf: Jorge de Leon, Warren Mok e Rudy Park. Molto professionali i primi, con qualche riserbo sulle molte libertà presesi dalla star nazionale cinese. Bene, anzi benissimo il coreano Rudy Park, che specie nella seconda prova ha dato dimostrazione di talento e vocalità non comuni. Due soprani per il ruolo di Liù: la croata Lana Kos e la napoletana Valeria Sepe. Due stelle, la prima già famosa, la seconda nascente ma già ben nota e apprezzata per i suoi recenti successi in quel di Napoli, Palermo, Pisa, Livorno, Genova, Arena di Verona… Due modi differenti di proporre al pubblico il loro personaggio, ambedue belle e assai credibili. Valeria ha una sola occasione e la sfrutta al meglio regalandoci un’interpretazione emozionante e ben salda, Lana è al suo debutto nel ruolo, cresce di recita in recita e culmina in una piena maturità nell’ultima rappresentazione. Il basso Igor Durlovski interpreta egregiamente Timur che ci emoziona fortemente con la sua cecità, il suo portamento da personaggio biblico e non ultimo, una vocalità importante e godibile in tutto il registro. Ping, Pang e Pong, rispettivamente Marcello Lippi, Giorgio Trucco e Blagoj Nakoski formano un trio perfettamente amalgamato superando a pieni voti una prova non facile, specie se messa in relazione con una regia fortemente impegnativa, laddove a muoversi molto o per nulla sono proprio loro. Benissimo anche il Mandarino del baritono Daniele Piscopo che pur cantando dalla distanza riesce sempre a raggiungere gli spettatori fin nelle ultime file, grazie ad una voce ben proiettata. Vocalmente ottimo Li Xiang che indossa il costume dell’Imperatore Altoum e ne incarna perfettamente le intenzioni emozionando il pubblico nel finale con una paterna carezza agli sposi. Corrette le ancelle di Sofia Janelidze e Teresa Gargano.
Parlando del pubblico va detto che appare un po’ freddo ma che così in realtà non è. È essenzialmente un pubblico eterogeneo, disciplinato, forse memore di un sistema totalitario. Non un telefonino acceso durante la recita, non un colpo di tosse o qualsivoglia tipo di distrazione… ma neanche un applauso scomposto o di forte entusiasmo, almeno non prima del “momento”. Difficile quindi anche capire se, su una trovata registica come quella di portare in scena la foto di Giacomo Puccini dopo la morte di Liù, ovvero alla morte del compositore, sia mancato l’applauso per compostezza o per incomprensione. Gli applausi però ci sono stati e anche molti per tutti gli interpreti, ma fatta eccezione per i tradizionali momenti, solo a fine recita.
La mia personale impressione è che lo spettacolo sia bello e che meriti di sbarcare sul suolo nazionale. E per chiudere una riflessione sul mio personale coinvolgimento: veder nascere e crescere uno spettacolo, vederlo applaudire, non può che emozionare. È un miracolo che si realizza sotto gli occhi, una magia che solo l’arte è capace di compiere, e se ci soffermiamo a guardare un bel quadro, può davvero servire andare alla ricerca di qualche pennellata troppo grassa o troppo magra?
Roberto Cucchi