BERGAMO: Medea in Corinto – Giovanni Simone Mayr, 27 novembre 2021 a cura di Nicola Salmoiraghi
MEDEA IN CORINTO
Melodramma tragico di Felice Romani
Musica di Giovanni Simone Mayr
Prima esecuzione: Napoli, Real Teatro di San Carlo, 28 novembre 1813
Edizione critica della versione di Bergamo (1821) a cura di Paolo Rossini
© Casa Ricordi, Berlino
Direttore Jonathan Brandani
Regia Francesco Micheli
Personaggi e Interpreti:
- Creonte Roberto Lorenzi
- Egeo Michele Angelini
- Medea Carmela Remigio
- Giasone Juan Francisco Gatell
- Creusa Marta Torbidoni
- Ismene Caterina Di Tonno
- Tideo Marcello Nardis
Scene Edoardo Sanchi
Costumi Giada Masi
Lighting design Alessandro Andreoli
Drammaturgo Davide Pascarella
Assistente alla regia Tommaso Franchin
Assistente alle scene Chiara Taiocchi
Orchestra Donizetti Opera
Coro Donizetti Opera
Maestro del coro Fabio Tartari
Nuovo allestimento della Fondazione Teatro Donizetti
Teatro Sociale, 27 novembre 2021
Intorno a Donizetti. È anche questa la missione esplorativa del Festival dedicato al Bergamasco; ecco così la proposta, al Teatro Sociale, della rara Medea in Corinto di Giovanni Simone Mayr, maestro dello stesso Donizetti.
L’opera debuttò al Teatro San Carlo di Napoli nel 1813 e fu rivista per Bergamo qualche anno dopo, dove andò in scena ampliata e con diversi cambiamenti, nel 1821, proprio al Teatro Sociale. Le vicende mitologiche della Maga della Colchide, di Giasone, Egeo, Creusa, Creonte sono trattate musicalmente da Mayr con alta scuola compositiva e, se è consentito dirlo, con una buona dose di solida “accademia”. I momenti suggestivi e di notevole livello non mancano (il duetto Medea-Giasone “Cedi al destin, Medea”, il duetto Egeo-Medea “Se il sangue, la vita”, la grande scena finale della protagonista “Ah, che tento?”), ma nel complesso l’opera non decolla quasi mai verso vette irraggiungibili; una partitura nobile, ben confezionata, e un tantino “ingessata”.
E allora perché non ho potuto nemmeno per un attimo perdere l’attenzione e staccare gli occhi dal palcoscenico, nonché distogliere l’ascolto da ogni singola nota? Perché il nuovo allestimento con la regia di Francesco Micheli è di prodigiosa forza teatrale e di intelligenza e scavo drammatico di primissimo ordine.
Cosa fa Micheli – con il contributo non secondario del giovane e bravo drammaturgo Davide Pascarella ? – “Riscrive” e reinterpreta la storia, offrendone una visione affatto singolare e per certi versi terribile, che ti inchioda alla poltrona.
Il Mito è richiamato dalla presenza di certe figure mascherate d’ebano e da alcuni costumi che ricordano la Medea di Pasolini, ma poi cosa succede? Eccoci in un Prologo (sulla Sinfonia) ambientato nella Corinto del 2021, mentre ancora il Covid ci costringe a fare i conti con lui, dove nella casa ormai solitaria di Giasone e Medea, nella cucina che fu arena di tanti scontri famigliari, i due figli della coppia, ormai di mezza età (sono i cantanti che interpreteranno i due protagonisti), dopo il suicidio del padre (lo vedremo alla fine dell’opera) che si è trafitto la gola con un coltello proprio sul tavolo di quella stanza, sistemano gli oggetti della memoria, della loro memoria. E la memoria ci riporta al 1959, quando Medea e Giasone, ragazzi, si innamorano, e con l’impeto dell’adolescenza si sposano (Creonte è il sacerdote che officia), in parte mettendosi contro la famiglia.
Ma Giasone è un bullo delinquentello, a Medea sta molto stretta la vita con i suoceri, e così i due fuggono (non prima che Giasone si sia riempito le tasche di oggetti di valore sottratti alla famiglia). Dove vanno (siamo intanto nel 1960)? Nella cosmopolita Corinto (ma potrebbe essere una qualsiasi città dove l’urbanizzazione si sta facendo selvaggia e incontrollata, in una periferia distopica e rovesciata, richiamata in scena come sfondo), ad abitare in un condominio, dove lo stesso anno arrivano i freschi sposi Creusa ed Egeo, medio-borghesi benestanti. Nella guardiola dei portinai, testimoni partecipi, impiccioni e linguacciuti – un’idea geniale – ecco una coppia di marito e moglie probabilmente già stanchi uno dell’altra da tempo, Ismene e Tideo.
Passa il tempo, ed eccoci nel 1975, anno in cui si svolgerà la trama. I ragazzi che raffiguravano Medea e Giasone sono ora i figli adolescenti della coppia (il gioco di specchi e rimandi è continuo); il matrimonio è in crisi da anni, i litigi si alternano alla rabbia e all’aggressione fisica. Il tavolo da cucina diventa una specie di ring delle torture, anche psicologiche, che subiscono i figli, divisi tra l’amore verso i due genitori e la repulsione per entrambi. A poco a poco la gioventù, la stabilità, le certezze muoiono dentro di loro, come se una parte di loro stessi cessasse di esistere. Giasone ha intrapreso una relazione sordida e senza sbocchi con la vicina di pianerottolo, Creusa. Medea ed Egeo covano risentimento ed esplosioni di gelosia, e, ad un certo punto, pensano anche, per vendetta, ad un adulterio incrociato. I letti delle due coppie sono così deserti di solitudine, dove ognuno è abbandonato a sé stesso (quanto Ingmar Bergman c’è – è un complimento – e quanto Scene da un matrimonio). La figura di Creonte è immaginata da tutti. Il prete che ha unito l’amore quando sembrava ancora amore, appare nei momenti in cui si immagina una felicità che non esisterà per nessuno; il Coro, sistemato nei palchi di proscenio, è la voce della coscienza di ognuno.
Quando Medea confezionerà l’abito per Creusa ritagliandolo con disprezzo dalla tovaglia da cucina, significa che la ricaccerà nel suo matrimonio grigio e senza sbocchi, e sarà questa la morte di Creusa; come l’uccisione dei suoi figli (che i due genitori hanno già ampiamente perpetrato stroncando in loro ogni sicurezza e figura di riferimento) sarà sottrarli al padre, portandoli con sé verso un futuro di incertissima indipendenza.
Di questo emozionante spettacolo (dove tra l’altro tutti, ma proprio tutti, guidati dalla mano sicura di Micheli, recitano con l’empito e la credibilità di consumati attori di prosa) pilastri fondamentali sono le scene essenziali ma efficacissime di Edoardo Sanchi, quattro ambienti che salgono e scendono – camera e cucina di Giasone e Medea, salotto e camera di Egeo e Creusa, e, dai lati, guardiola di Ismene e Tideo -, e quando salgono scoprono luci al neon di colore sempre diverso a definire le atmosfere (perfetto il disegno luci di Alessandro Andreoli). Assolutamente funzionali anche i caratterizzanti costumi di Giada Masi.
Sul podio dell’Orchestra Donizetti Opera, Jonathan Brandani ha tenuto abilmente le fila della trama musicale di Mayr, sostenendo con attenzione il palcoscenico. Volenteroso il contributo del Coro Donizetti Opera, preparato da Fabio Tartari. Al fortepiano Hana Lee.
Carmela Remigio era impegnata nell’impressionante tour de force che è il ruolo della protagonista. Questa cantante ribadisce ogni volta l’impeccabile professionalità di un interprete che non sbaglia un colpo in quanto a intelligenza musicale e totale aderenza al personaggio (attrice formidabile in ogni attimo dell’opera). Ogni parola cantata dal soprano, pur in una scrittura tanto impegnativa, ha sempre un senso, un colore, un’intenzione. La lunga, tremenda e perigliosa scena finale è stata affrontata con spericolato senso del teatro, donandosi a fondo, senza risparmio alcuno, sia scenico che vocale, con risultati di totale coinvolgimento emotivo per chi ascoltava (e vedeva). Una prova di grandissima maturità artistica.
I due ruoli tenorili sono micidiali per difficoltà. Juan Francisco Gatell (Giasone) ha convinto per la credibilità infusa al personaggio e l’argentina qualità di un timbro che non teme i vertici del pentagramma, unita ad una consapevolezza di fraseggio da musicista di classe. Michele Angelini, a sua volta perfetto teatralmente nel ruolo, ha dovuto scalare picchi sovracuti da cardiopalma e l’ha fatto con generosità e attendibilità tecnica, dimostrando di avere molte carte da giocare nel repertorio del virtuosismo belcantistico.
Marta Torbidoni (Creusa) ha buona pasta sopranile e adeguata ampiezza di volume; solo qualche sparsa asprezza in acuto è sicuramente correggibile, in un’interpretazione comunque di convincente forza espressiva. Autorevole a dovere il Creonte di Roberto Lorenzi.
Assolutamente impagabili l’Ismene e il Tideo di Caterina Di Tonno e Marcello Nardis, a Hollywood si direbbe da Oscar come migliori attori non protagonisti. Molto, molto bravi i due giovani attori che incarnavano i figli di Medea e Giasone nonché i loro genitori da giovani, Chiara Dello Iacovo e Andrea Guspini.
Quando una pagina di grande teatro valorizza un’opera, che, da sola, forse avrebbe qualche difficoltà a reggere il palcoscenico.
Nicola Salmoiraghi