COMO: Il trovatore- Giuseppe Verdi, 2 e 4 dicembre 2021 a cura di Roberto Cucchi
IL TROVATORE
Dramma in quattro parti. Musica di Giuseppe Verdi.
Libretto di Salvadore Cammarano, Leone Emanuele Bardare
Prima rappresentazione:Teatro Apollo, Roma, 19 gennaio 1853 Ed. RICORDI
Direttore Jacopo Brusa
Regia Roberto Catalano
Personaggi e Interpreti:
- Manrico Matteo Falcier
- Il Conte di Luna Leon Kim
- Leonora Marigona Qerkezi
- Azucena Alessandra Volpe
- Ferrando Alexey Birkus
- Ines Sabrina Sanza
- Ruiz Roberto Covatta
Scene Emanuele Sinisi
Costumi Ilaria Ariemme
Luci Fiammetta Baldiserri
Assistente alle Scene Piero De Francesco
Assistente alle Luci Oscar Frosio
Maestro del coro Diego Maccagnola
Coro OperaLombardia
Orchestra I Pomeriggi Musicali di Milano
Coproduzione Teatri di OperaLombardia
Allestimento ripreso dalla produzione dell’Ente Concerti “Marialisa De Carolis” di Sassari
Teatro Sociale di Como, 2 e 4 dicembre 2021
Correva l’anno 1990 quando in quel del Teatro Sociale di Como andava in scena il Trovatore: direttore Marcello Rota, regia Dario Micheli. Poco più che ventenne, mai mi sarei sognato di ritrovarmi oggi a scrivere d’opera e dei suoi interpreti. I progetti di gioventù (un po’ come quello che troviamo sulla scena), come spesso accade, e nella fattispecie potrei dire anche fortunatamente, sono tutti andati in fumo e di loro non resta che un vago ricordo (ceneri). Bene invece ricordo la protagonista (quel che conosciamo come “Il trovatore” avrebbe dovuto titolarsi “La zingara”; lo si deduce dall’epistolario di Giuseppe Verdi), un apparentamento suocera-genero certo ingombrante scongiurato dalla sorte. Ma, se poca simpatia provo per lei, va detto anche ad onor del vero, che di Azucena possedeva fibra, spessore e vicinanza geografica di provenienza. Voce indimenticabile.
Da allora, di trovatori ne avrei visti parecchi, più o meno calibrati, più o meno interessanti per questo o per quel motivo. Perché un motivo per tutte le cose ci deve sempre essere. Quale sia il motivo che abbia portato all’assortimento di questo cast è però difficile da comprendere. Cinque protagonisti presi in prestito dal repertorio rossiniano, belliniano o donizettiano, dove come nel caso di Marigona Qerkezi (qui Leonora) si sono avute interpretazioni memorabili. Prestiti contratti a rischio di sovraindebitamento, e quel che rimane non è altro che un debito causa di un’ansia da togliere il fiato, come nel caso di Alessandra Volpe (qui Azucena). Fatto salvo Matteo Falcier (qui Manrico) se non altro per l’interpretazione convinta e in assoluto per la correttezza, restano Leon Kim (qui Conte di Luna), buona vocalità ma perlomeno perfettibile nella dizione e nelle intenzioni; dicasi lo stesso, e maggior ragione, di Alexey Birkus (qui Ferrando). La sola provenienza estera non giustifica le imprecisioni. Emergono la Ines di Sabrina Sanza perfettamente a fuoco, Ruiz di Roberto Covatta, un Vecchio Zingaro di Riccardo Dernini (una voce da vero basso). Il Messo è Davide Capitanio.
Sul podio Jacopo Brusa che ben si destreggia nel salto agli ostacoli in un percorso disseminato di asperità che andavano dai vistosi rallentamenti, ai sonori problemi di intonazione fin sino alle entrate fuori tempo. Occorre essere dotati di una certa fibra per riuscire a portare a casa la recita in simili condizioni. L’Orchestra I Pomeriggi Musicali è quella di sempre, il Coro OperaLombardia, preparato da Diego Maccagnola riesce meno compatto e solido rispetto ai suoi minimi standard.
Di altra caratura la regia di Roberto Catalano che trascende la mera narrazione di un soggetto notoriamente antiteatrale, anche se ampiamente metabolizzato dalla storiografia dell’opera. Il trovatore diviene un’occasione di indagine introspettiva, analisi di un comportamento, quello umano, che cede la ragione all’odio e alla vendetta. Un fuoco interiore che si materializza e che divampa perenne uccidendo ogni forma di vita e di amore, che offusca persino la chiara visione di antiche verità delle quali restano solo ceneri e con le quali ricoprire passato, presente e futuro. La scena di Emanuele Sinisi si articola in un’alternanza tra il materico ed il concettuale. La vicenda si compie al di sotto dell’orizzonte degli eventi, limite oltre la quale nulla può influenzare un osservatore esterno. Quello che avrebbe potuto essere se… se Manrico e il Conte si fossero riconosciuti, se Azucena avesse svelato l’arcano per tempo, se l’amore avesse prevalso sull’odio. Ogni tentativo di rimuovere le ceneri sotto le quali è sepolta la luce bianca della verità assoluta (fratellanza, amore, perdono…) risulta vano. Qui coesistono il progetto di quello che fu, o che avrebbe potuto essere, con ciò che è rimasto, nell’eterna ridondanza di una eco che grida vendetta paralizzando ogni sforzo che conduca all’evoluzione, o alla rivoluzione (non dimentichiamo i moti risorgimentali e la carica emozionale scatenata dal “all’armi!”).
Leonora e Manrico sono gli unici che morendo si salvano dalla dannazione eterna, quella della non morte alla quale è condannato il Conte (“e vivo ancor”). I costumi di Ilaria Ariemme completano egregiamente il concetto basilare ponendo i personaggi al di fuori del tempo e del luogo. Gli zingari non sono più zingari, con buona pace del politacally correct, vestendosi del proprio stato d’animo invece che delle proprie condizioni sociali. Gli sgherri, d’altro canto, mantengono la divisa che meglio rappresenta il leit-motiv che da sempre accomuna le gang così come gli eserciti: il bisogno di appartenere, a qualcosa, a qualcuno, o più semplicemente a una pur fallace idea. Pretende, e pretende molto quest’ultimo lavoro del team Catalano-Sinisi-Ariemme del quale ci pregiamo di aver assistito al debutto assoluto con un altrettanto bella Madama Butterfly, alla successiva Traviata, e per il quale ci troviamo dispiaciuti di aver mancato il Falstaff. Una quantomeno motivata pretesa, in tempi quando nel mondo la regia la fa da padrona sull’operato -tutto- della compagine musicale. Occorre però domandarsi se il pubblico italiano, specie quello della cosiddetta provincia, sia adeguatamente preparato alla regietheater. Certo uno scenario internazionale (vorrei dire meritato) agevolerebbe molto e porrebbe l’intera rappresentazione al di fuori d’ogni rischio. Le ottime luci sono quelle di Fiammetta Baldiserri riprese da Oscar Frosio, che sfruttano al meglio le moderne tecnologie offerte dal teatro.
Ad eccezione che per Matteo Falcier, sono mancati gli applausi, pur bramati e attesi in interminabili ed imbarazzanti pause a scena aperta. E, quandanche il pubblico, contentandosi del meno peggio, si è prodotto in una reazione di qualche tipo, non la si potrebbe definire entusiastica e men che meno spontanea. Un vuoto colmato solo parzialmente alla ribalta finale in cui si è ribadito l’apprezzamento per il tenore, ma anche e soprattutto per il soprano che in quel di Como ha un vissuto di ragguardevole fama e rispetto. Gradimento anche per la direzione e per la regia, il resto è rito.
Roberto Cucchi