TEATRO ALLA SCALA: Adriana Lecouvreur – Francesco Cilea, 16 marzo 2022 a cura di Nicola Salmoiraghi
Adriana Lecouvreur
Opera lirica in quattro atti
Libretto di Arturo Colautti
Musica di FRANCESCO CILEA
(Copyright ed edizione: Casa Musicale Sonzogno di Pietro Ostali, Milano)
Coproduzione Royal Opera House, Covent Garden; Gran Teatre del Liceu;
Wiener Staatsoper; Opéra National de Paris; San Francisco Opera
Direttore Giampaolo Bisanti
Regia David McVicar
ripresa da Justin Way
Personaggi e interpreti:
- Adriana Lecouvreur Maria Agresta
- Maurizio, Conte di Sassonia Yusif Eyvazov
- Michonnet Ambrogio Maestri
- La principessa di Bouillon Judit Kutasi
- Il principe di Bouillon Alessandro Spina
- L’abate di Chazeuil Carlo Bosi
- Poisson Francesco Pittari
- Quinault Costantino Finucci
- M.lle Jouvenot Caterina Sala
- M.lle Dangeville Svetlina Stoyanova
- Un maggiordomo Paolo Nevi
Scene Charles Edwards
Costumi Brigitte Reiffenstuel
Luci Adam Silverman riprese da Marco Filibeck
Coreografia Andrew George ripresa da Adam Pudney
Orchestra e Coro del Teatro alla Scala
Maestro del Coro Alberto Malazzi
Teatro alla Scala, 16 marzo 2022
Adriana Lecouvreur di Cilea torna alla Scala, e lo fa in grande stile. Non mi stancherò mai di ripetere quanto quest’opera (come molte coeve di altri autori italiani, snobbate per pregiudizio culturale, o peggio, politico) sia un vero e proprio capolavoro. Verismo un corno. Questa etichetta appiccicata ad un periodo che ricopre più o meno un cinquantennio e si può ascrivere sì e no a due o tre titoli, ha francamente stancato. Qui se mai c’è finezza orchestrale, ricerca continua di nuances, un richiamo, se proprio si vuole a certe tinte di Massenet e di Debussy, sì Debussy. E un grande senso del Teatro con la T maiuscola, unito ad un racconto efficacissimo e ispirato.
Alla Scala si è scelto uno spettacolo già visto molto altrove (Londra, dove nacque, Barcellona, Vienna, New York, Parigi) che reca la firma di David McVicar (regia, qui ripresa da Justin Way), Charles Edwards (scene, belle), Brigitte Reiffenstuel (costumi, bellissimi), Adam Silverman (luci, riprese da Marco Filibeck), Andrew George (coreografia, ripresa da Adam Pudney). David McVicar sceglie la via di una tradizione che non è mai museo, ma palpitante teatralità. Il Settecento è Settecento (non è un delitto dopotutto, se la recitazione è moderna e credibile) e tutto si svolge sovrapponendo la finzione delle scena alla realtà della vita. Un teatro nel primo atto, che diventa anche il villino Bouillon del secondo, il teatrino privato dei Principi nel terzo (dove si svolgono balletto e monologo di Fedra) e retropalco nell’ultimo, dove simbolicamente vive Adriana, totalmente votata alle luci della ribalta, da cui la saluteranno e omaggeranno in riverente silenzio i commedianti nel momento della morte. Spettacolo bello, accuratamente pensato e ben condotto, senza alcuna sbavatura.
Come senza sbavatura è la direzione di Giampaolo Bisanti alla guida dell’Orchestra scaligera. Il Maestro Bisanti crede in questa partitura e si sente. Grandissimo equilibrio sonoro, attenzione al palcoscenico, ricerca di sfumature, mezzetinte, suggestioni, senza dimenticare gli slanci accesi e passionali, tra malinconia e trasporto emotivo, in cui la musica di Cilea ha avuto modo di rifulgere. L’Intermezzo del secondo atto e il Preludio del quarto sono stati veri e propri ricami sonori, ricchi di tensione drammatica e abbandono lirico, e in quest’ultimo si è avuta addirittura l’impressione di udire battere l’inesorabilità del destino e del tempo che scorrono.
Maria Agresta debuttava il ruolo della protagonista e ne è uscita promossa a pieni voti. Se io stesso ho avuto l’impressione che alla cantante (vocalmente impeccabile) difettasse qualcosa dal punto di vista di personalità scenica, ho dovuto ricredermi con lo scorrere degli atti. Semplicemente mi sono trovato di fronte ad una costruzione affatto nuova del personaggio, che segue un arco drammatico ben preciso. Tigre sulla scena, Adriana secondo Maria Agresta è una ragazza fragile e quasi indifesa nella vita, con i dubbi, la freschezza e le incertezze di fronte alla realtà che si trova di fronte. La vita sa affrontarla tra i fantasmi del palcoscenico, fuori le quinte è una donna con le sue mille incertezze. E in questa luce anche il monologo di Fedra del terzo atto, così umano e vero, assume un significato del tutto nuovo. La cantante poi è tecnicamente agguerritissima, voce che galleggia sul fiato, filati, pianissimi, acuti sicuri, fraseggio vario e sempre interessante, colori e accenti cangianti e di minuziosa profondità. Il quarto atto è stato assolutamente da manuale (a partire da un “Poveri fiori” tutto legato e sostenuto con effetti da brivido) e le è valso la meritata ovazione finale.
Yusif Eyvazov era Maurizio di Sassonia, e sinceramente davanti all’oggettività di un timbro e di un colore che non sono tra i più preziosi, francamente devo dire che mi importa poco o nulla, quando si è capaci di cantare così. A parte la fulminate sicurezza di acuti svettanti e intemerati, Eyvazov sa “dire” cantando, fraseggia, accenta, sfuma, sempre con intelligenza e consapevolezza musicale. “L’anima ho stanca” ha rappresentato un momento vocalmente magnifico, così come i duetti con Adriana e tutto l’ultimo atto nel complesso.
Judit Kutasi è stata autorevole Principessa di Bouillon. Vocalità mezzosopranile tornita e di bel colore, acuti luminosi, registro medio-grave pastoso e mai forzato, incisiva ma mai sovraccarica veemenza interpretativa, si è ritagliata la sua fetta di vibrante successo.
Ambrogio Maestri ha voce e volume per tre baritoni. Questa consapevolezza ogni tanto non gli suggerisce magari di sorvegliare a dovere la salita in acuto, che non sempre risulta del tutto irreprensibile in quanto a intonazione. Ma quanta sincera umanità si ritrova nel suo ritratto di Michonnet (straordinario personaggio a cui tra l’altro il libretto riserva alcune delle frasi più belle dell’opera) che si fa forza comunque di un mezzo di intensità e vigore assolutamente incontestabili.
Alessandro Spina ha convinto come Principe di Bouillon, e Carlo Bosi ha creato come sempre uno dei suoi piccoli gioielli vocali e interpretativi come impagabile Abate di Chazeuil; ecco un artista, si direbbe.
Ottimo il quartetto dei commedianti: Costantino Finucci (Quinault), Francesco Pittari (Poisson), Caterina Sala (Madamigella Jouvenot), Svetlina Soyanova (Madamigella Dangeville). Completava la locandina Paolo Nevi (Un maggiordomo)
Indispensabile e inappuntabile come di consueto il contributo del Coro del Teatro, preparato dal Alberto Malazzi.
Calorosissimo e prolungato successo al termine per tutti, da parte di un pubblico che si sarebbe desiderato ancora più folto. Questi tesori musicali fanno parte del nostro patrimonio musicale e del nostro tessuto culturale. Trascurarli è un peccato, aggiungerei grave.
Nicola Salmoiraghi