TEATRO ALLA SCALA: I Vespri siciliani – Giuseppe Verdi, 1 febbraio 2023 a cura di Nicola Salmoiraghi
I Vespri siciliani
Giuseppe Verdi
Dramma in cinque atti
Libretto di Eugène Scribe e Charles Duveyrier
Direttore Fabio Luisi
Regia, scene e costumi Hugo De Ana
Personaggi e Interpreti:
- Guido di Monforte Luca Micheletti
- Il signore di Bethune Andrea Pellegrini
- Il conte Vaudemont Adriano Gramigni
- Arrigo Piero Pretti
- Giovanni da Procida Simon Lim
- La duchessa Elena Marina Rebeka
- Ninetta Valentina Pluzhnikova
- Danieli Giorgio Misseri
- Tebaldo Bryan Avila Martinez
- Roberto Christian Federici
- Manfredo Andrea Tanzillo
Luci Vinicio Cheli
Coreografia Leda Lojodice
Nuova produzione Teatro alla Scala
Orchestra e Coro del Teatro alla Scala
Teatro alla Scala, 1° febbraio 2023
Mancavano dal dicembre 1989, quando il 7 dicembre inaugurarono la stagione della Scala. Sono tornati quindi I Vespri siciliani di Giuseppe Verdi, nella loro veste italiana e non nell’originale francese. Personalmente questo non mi scandalizza, esiste una granitica tradizione esecutiva in questo senso e così anche si rappresentavano vivente l’autore. Bellissima è l’opera comunque, per cui passiamo oltre.
Lo spettacolo si avvaleva del nuovo allestimento firmato dal veterano Hugo De Ana per regia, scene e costumi, (luci di Vinicio Cheli). Il regista trasporta l’azione dal 1282 a una generica Seconda Guerra Mondiale, con la Sicilia occupata non è molto chiaro da chi, ma poco importa, potrebbe anche essere un qualsiasi conflitto dei nostri giorni. L’atmosfera, tutta in bianco, nero e grigio, è plumbea e opprimente e, alla lunga ingenera noia teatrale (le scene non sono granché e i costumi bruttarelli assai). Non basta creare un’ambientazione suppostamente “moderna” per realizzare Teatro, soprattutto se manca un vero lavoro di scavo interpretativo sui movimenti e le motivazioni dei singoli, apparendo gli interpreti più che altro abbandonati alle personali capacità interpretative.
Certo qualche carrarmato e qualche esplosione e il simbolico ulivo della pace che prende fuoco (male, alla mia replica) nel finale, risultano più risibili che drammatici, e la Morte e il cavaliere che giocano a scacchi come nel bergmaniano Settimo sigillo, continuamente in scena, a nulla servono e paiono pretestuosi. Non aiutano le coreografie risapute e leziosette di Leda Lojodice. Fatta salva una professionalità di fondo, insomma, uno spettacolo più che brutto (si è visto di peggio) inutile.
Infuocata e convincentemente “verdiana” la direzione di Fabio Luisi alla testa dell’Orchestra scaligera. Certo i ballabili (i più belli di Verdi insieme a quelli di Macbeth) fanno parte dell’edizione francese, ma un po’ spiace rinunciarvi, mentre meno si comprende il taglio del Coro iniziale del quinto atto, che inizia così “brutalmente” con il “Bolero”. Per il resto bella ricerca di colori, tempi giusti e incalzanti, distesamente lirici all’occorrenza, fraseggio orchestrale vario e mosso, plastica resa di questa ipertrofica partitura verdiana, così dilatata eppure straordinariamente affascinante e coinvolgente. Non è tra i titoli verdiani più popolari, ma è certamente tra quelli maggiormente da studiare, approfondire, sviscerare. Il Maestro Luisi pare amarla molto, e si sente.
Eccellente il quartetto protagonistico. Partendo da Piero Pretti, che ha espugnato con baldanza il ruolo “monstre” di Arrigo, che richiede corrusca veemenza, lirica dolcezza e lampi belcantistici con perigliose ascese sovracute. Il tenore ha cantato tutto con una souplesse che pareva rendere facile questa scrittura, non perdendo un colpo. C’è perizia tecnica, morbidezza di fraseggio, ricerca di sfumature, slanci acuti fulminanti; c’è un cantante di primissima classe.
Al suo fianco ha brillato la splendida Elena della bravissima Marina Rebeka, una delle grandi voci sopranili di oggi, al suo debutto in questo a sua volta difficilissima parte, che dopo aver cantato tutto quello che ha cantato negli atti precedenti, deve arrivare fresca alle volute belcantistiche del “Bolero”. Di atto in atto, in continuo crescendo, Marina Rebeka, ha realizzato una prova formidabile. I duetti con il tenore, l’incandescente terzetto finale (che folgori acute), il succitato “Bolero”, cantato con incantevole eleganza, una resa elegiaca e preziosamente ricamata sul fiato nonché cesellata sull’accento, con la rapinosa cadenza, di “Arrigo! Ah, parli a un core” hanno contribuito, come tutti i suoi interventi, a un’interpretazione di straordinario rilievo.
Debuttava come Monforte anche Luca Micheletti, che ha ribadito ancora una volta cosa significhi essere cantante/artista o artista/cantante (invertendo l’ordine dei fattori il risultato non cambia) di grande livello. Non c’è una parola, una frase, un colore, un accento che vadano sprecati nel canto di Micheletti, tutto teso a costruire la verità del personaggio. Il timbro nobile, chiaro, l’adeguata proiezione sonora e l’appropriata autorevolezza in tutti i registri hanno siglato una prova assolutamente rimarchevole.
Simon Lim (Procida) si conferma una delle più accreditate giovani voci di basso odierne. Bella cavata sonora, timbro pastoso, colore avvolgente e ricco di sfumature, attento nell’accento e nel fraseggio, convincente tanto in acuto che in grave, ha siglato con grande e meritato successo una prova iniziata con una rilevantissima esecuzione della sua grande aria “O tu Palermo”.
Ancora una volta ricordiamo che, strumento tra gli strumenti e vero personaggio a se stante, il Coro scaligero, guidato da Alberto Malazzi, è stato non meno che magnifico.
Molto ben scelti e bravi gli interpreti dei ruoli comprimari, che ben volentieri cito: Andrea Pellegrini (Sire di Bethune), Adriano Gramigni (Conte Vaudemont), Valentina Pluzhnikova (Ninetta), Giorgio Misseri (Danieli), Brayan Avila Martinez (Tebaldo), Christian Federici (Roberto), Andrea Tanzillo (Manfredo).
Applausi convinti e prolungati per tutti al termine, che si sarebbero desiderati (da parte del pubblico sempre un po’ ingessato del turno A) anche più sonori e fervidi anche in corso d’opera, considerata la qualità dell’esecuzione vocale e musicale.
Nicola Salmoiraghi