VERONA: Carmen – Georges Bizet, cast a confronto 11 – 24 agosto 2023 a cura di Silvia Campana

  • 27/08/2023

Arena di Verona, 11/24 agosto 2023


Photo©Ennevi

La Carmen zeffirelliana, ormai un classico per il palco areniano dove vide la luce per la prima volta nel 1995 e fu poi ripresa con alcune lievi modifiche nel corso degli anni, conferma ancora una volta tutto il suo fascino. Per quanto infatti la produzione offra a tratti il perfetto ritratto di una Siviglia da cartolina, questa mantiene il fascino e l’inalterato cromatismo di quelle d’antan di fili di tessuto che si amavano da bambini, tanto è ricca di piccoli quadri e curati movimenti di massa. Inoltre con gli anni si è recuperata nella totalità l’intuizione del regista fiorentino giocata sulla minuziosa ricerca dei particolari e sulla riproduzione quasi cinematografica di un set (certo oleografico ma efficace e ben costruito) in cui gli artisti possano muoversi a proprio agio. Non stupisce dunque che in questo variopinto insieme non infastidisca l’inserimento (sempre più preponderante) del flamenco (qui interpretato dall’ottima Compañia A. Gades) sempre più amato dal pubblico che, ad ogni replica, non ha mancato di gremire l’anfiteatro accompagnandone le esibizioni con il suo più o meno opportuno entusiasmo.

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Impegnata in tutte le recite era Clémentine Margaine che, pur confermando un’interpretazione principalmente vocale, è parsa crescere teatralmente recita dopo recita, restituendo un ritratto della gitana sempre più approfondito ed efficace.

Nelle recite da me seguite venivano a mutare rispetto alla première i ruoli di Don Josè, Micaela, Escamillo, Zuniga e Morales.

Sul personaggio di Don Josè molto si è scritto ed il motivo è che il personaggio, centrale nella novella di Merimée, divide con Carmen una peculiarità che lo rende, soprattutto oggi, drammaticamente attuale. Come infatti Carmen è diventata ormai simbolo di una libertà di scelta femminile che non arretra di fronte a nessuna minaccia, convenienza o paura così anche Don Josè, schiacciato tra un profilo frustrato e represso ed un altro aggressivo e prevaricante, è un chiaro modello borderline che purtroppo (con infinite variabili) è ormai una costante nei nostri notiziari.

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Ciò che risulta sempre quasi proibitivo per un interprete di questo ruolo è dunque proprio far emergere scenicamente tutto questo, giocando su chiaroscuri, dizione ed una recitazione che deve aderire al personaggio facendone trapelare il progressivo ma inesorabile inabissamento.

Non è chiaro cosa spinga Josè a precipitare in questa terra di nessuno e non credo sia solo il desiderio di possedere Carmen quanto una miscela che, mescolando insicurezza e vittimismo, alligna in radici ben più profonde. Perché il personaggio non risulti solo sbozzato o, peggio, declamato tutto ciò dovrebbe sempre ben sfociare dal boccascena ed i due artisti impegnati a vestire i suoi complessi panni in questa stagione areniana non possono certo averlo fatto in modo più diverso.

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Piotr Beczala è dotato di uno strumento molto interessante per timbro e colore e, grazie anche ad una presenza molto elegante e signorile, ha tratteggiato un Don Josè non giovanissimo negli atteggiamenti ma anzi piuttosto maturo e dal fraseggio meditato e suadente. Questo lo ha portato ad affrontare la parte con professionalità mirata ma anche a trascurarne un po’ l’aspetto più intimo. Una patina di freddezza rischiava così di dominare ogni suo gesto che risultava spesso troppo convenzionale (“Le fleur”) anche se alla ricerca di un maggior approfondimento espressivo.

Nel III e IV Atto la drammaticità sembrava finalmente affacciarsi ma l’evoluzione del personaggio giungeva tarda, improvvisa e non teatralmente giustificata.

Beczala si portava certo con giusta professionalità ma lasciava la sensazione, al termine, di una recita studiata a tavolino, certo misurata e partecipata ma con troppo poco cuore.

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Ed il problema per entrambi gli interpreti è sembrato proprio l’equilibrio: se infatti Beczala sembrava troppo freddo Vittorio Grigolo, al contrario, appariva (soprattutto nel IV Atto) completamente dominato dal suo temperamento, con tutte le conseguenze del caso.

Intendiamoci subito, Grigolo è un tenore che, nonostante sia perennemente criticato a causa del suo carattere non certo compassato (ma certo melodrammatico), conosce un suo preciso valore artistico. La voce è molto bella, sicura nell’estensione e ben dosata attraverso mezzevoci e filati, tutto ciò rischia però di venir spesso vanificato dal suo carattere che, poco ligio alla disciplina teatrale (che peraltro assai ben conosce e quando vuole pratica), sembra a tratti partire per la tangente dimenticando colleghi e direttori ma mai il suo pubblico.

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Non so se questo costituisca un reale difetto, perché sotto un profilo prettamente teatrale i suoi personaggi sono sempre ben scolpiti e coinvolgenti, ma è certo che gli stessi arriverebbero meglio e ad una parte di pubblico ancora maggiore se si dedicasse a loro con maggior equilibrio e rigore musicale.

Fatta questa necessaria premessa, il suo Don Josè (fatto salvo il duetto finale in cui la sua passionale veemenza recitativa gli ha decisamente preso la mano) è stato brillantemente tratteggiato in ogni sfumatura, fin dal suo ingresso, ed ogni reazione motivava psicologicamente la successiva. Una particolare misura interpretativa che purtroppo è andata in parte perduta nel IV Atto a causa di un duetto finale in cui l’arroventata passione accecava mente e partitura, troppa … anche per Don Josè.

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Concentrate entrambe su un bell’equilibrio tra la propria vocalità ed un tratteggio non così convenzionale del proprio personaggio Olga Kulchynska e Daniela Schillaci hanno delineato un efficace ritratto di Micaela, evidenziando vocalità differenti per dimensione e sostanza ma ugualmente corrette ed interessanti per sensibilità espressiva e giusto sentire.

Dalibor Jenis e Gëzim Myshketa, impegnati quali Escamillo, non aggiungevano nè toglievano alcunché al loro ruolo.

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Completavano il nuovo cast Gabriele Sagona (Zuniga) e Nicolò Ceriani (Morales).

Molto bene il Coro della Fondazione diretto da Roberto Gabbiani.

Daniel Oren alla guida dell’orchestra della Fondazione ha donato il suo preciso taglio espressivo alla partitura evidenziandone cromatismi e chiaroscuri ed è riuscito a guidare entrambi i cast in una griglia esecutiva che, anche per i più recalcitranti, diventava difficile infrangere.

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Grandissimo successo da parte del pubblico che gremiva l’anfiteatro con particolari ovazioni a Daniel Oren.

Silvia Campana

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