VERONA: AIDA 1913 – I cast del 2024 a cura di Silvia Campana
Arena di Verona, 10/22/29 agosto 2024
Si conferma appuntamento sempre molto gradito al pubblico la produzione di Aida che Gianfranco De Bosio (regista, docente e per due volte Sovrintendente dell’allora Ente Lirico) realizzò nel 1982 prendendo come fondamentale modello i bozzetti originali creati da Ettore Fagiuoli per l’edizione inaugurale del 10 agosto 1913: il più replicato nella storia dell’anfiteatro contando ad oggi 267 rappresentazioni lungo 22 edizioni del Festival dal 1982.
L’allestimento, dedicato quest’anno alla memoria del regista recentemente scomparso, si presentava in tutto il suo filologico smalto grazie al buon restauro effettuato in occasione della sua ultima ripresa nel 2019 e, perduta un po’ quella patina fané che nelle ultime edizioni l’aveva opacizzato, si mostra ora quale importante testimonianza storica di un’epoca.
Obiettivo della produzione originaria era infatti la volontà di ricostruire la magia del teatro d’opera come fu concepita a fine’ 800, per i costumi ci si ispirò liberamente agli originari figurini dell’egittologo Auguste Mariette mentre la ‘regia’ si basava sulle disposizioni sceniche che lo stesso compositore curò per la prima milanese dell’opera nel 1872 nella movimentazione di solisti, ballo e figuranti con le ovvie modifiche che naturalmente poi De Bosio operò a causa della peculiarità degli spazi areniani.
Nelle differenti recite si alternava una assai diversificata compagnia di cantanti.
Maria José Siri mostrava nella sua caratterizzazione della principessa etiope una cura particolare imperniata su di una vocalità tanto calibrata e robusta quanto mossa e sensibile e colpiva in modo particolare per l’attenzione rivolta all’espressività e per la ricercata cromia di un fraseggio sempre attentamente cesellato. Affatto convenzionale il suo personaggio trovava giusta misura in perfetta sintonia con la natura intima della partitura verdiana.
Un’interpretazione corretta ma troppo poco approfondita trapelava dall’esecuzione di Elena Stikhina che, dotata di uno strumento d’indubbio interesse, tradiva però un accento sostanzialmente monocorde ed un troppo generico uso del fraseggio.
In ottima forma vocale, Anna Pirozzi ha delineato un profilo femminile sapientemente sfaccettato e chiaroscurale tramite un intelligente uso dinamico di piani e mezze voci.
Intriso di romantico lirismo appariva il Radames tratteggiato da Piotr Beczala attraverso una vocalità assai vellutata e lucente che contribuiva a definirne un ritratto vocalmente e teatralmente assai mobile ed espressivo.
Gregory Kunde, decisamente sbilanciato invece verso il lato più guerriero del personaggio, ha scolpito un’interpretazione in continua crescita espressiva, mostrando quanto e come l’uso della parola porti sempre nel teatro verdiano ad una potente definizione del carattere.
Ekaterina Semenchuk, un’Amneris piagata dalla sua velenosa passione, ha donato la giusta drammaticità a questo centrale carattere femminile definito con un magnetico accento, sempre in sintonia con l’intenzione musicale presente in partitura.
Tramite un costante e raffinato lavoro su accento e fraseggio, sempre affrontato con minuziosa cura espressiva, l’Amonasro di Luca Salsi emerge con tutta la fierezza e l’astuzia che Verdi gli ha donato ponendosi, già dal suo ingresso, padrone della scena (“Quest’assisa “).
La vocalità imponente del baritono Youngjun Park contribuiva a cesellare con professionalità i contorni del re etiope mentre Ludovic Tézier ne definiva il carattere attraverso il bel timbro ed un’interpretazione sempre nobile e teatrale.
Corretto e professionale Alexander Vinogradov quale Ramfis.
Completavano il cast Simon Lim e Riccardo Fassi (che si alternavano quali Re), Carlo Bosi (Messaggero di lusso) sostituito poi nelle ultime recite da Riccardo Rados e Francesca Maionchi (Una Sacerdotessa).
Sofisticate e coinvolgenti le prestazioni delle danzatrici Eleana Andreodu e Futaba Ishizaki che si alternavano nella scena del trionfo.
Ottimo il Coro diretto da Roberto Gabbiani.
Daniel Oren alla guida dell’orchestra della Fondazione impostava la sua chiave interpretativa su di una coinvolgente lettura della partitura sensibile più alle ombre della guerra che ai fasti della vittoria.
Silvia Campana