«Amore d’anime» al Teatro Regio di Parma, a cura di Attilio Cantore

«Amore d’anime» al Teatro Regio di Parma, a cura di Attilio Cantore

  • 11/04/2019

ANDREA CHÉNIER

Dramma di ambiente storico in quattro quadri su libretto di Luigi Illica

Musica
UMBERTO GIORDANO
Edizioni Casa Musicale Sonzogno di Piero Ostali, Milano

Maestro concertatore e direttore GIOVANNI DI STEFANO

Regia NICOLA BERLOFFA

Personaggi Interpreti

  • Andrea Chénier MARTIN MUEHLE
  • Carlo Gérard CLAUDIO SGURA
  • Maddalena di Coigny TERESA ROMANO
  • La mulatta Bersi NOZOMI KATO
  • La Contessa di Coigny SHAY BLOCH
  • Madelon ANTONELLA COLAIANNI
  • Roucher STEFANO MARCHISIO
  • Pietro Fléville ALEX MARTINI
  • Fouquier Tinville ALEX MARTINI
  • Il sanculotto Mathieu FELLIPE OLIVEIRA
  • Un “Incredibile” ALFONSO ZAMBUTO
  • L’Abate, poeta ROBERTO CARLI
  • Schmidt STEFANO CESCATTI
  • Il Maestro di Casa LUCA MARCHESELLI
  • Dumas LUCA MARCHESELLI

Scene JUSTIN ARIENTI

Costumi EDOARDO RUSSO

Luci VALERIO TIBERI

Assistente alla regia VERONICA BOLOGNESI

ORCHESTRA DELL’EMILIA-ROMAGNA ARTURO TOSCANINI

ASSOCIAZIONE CORO LIRICO TERRE VERDIANE-FONDAZIONE TEATRO COMUNALE DI MODENA

Maestro del coro STEFANO COLÒ

Nuovo allestimento

Coproduzione Fondazione Teatro Comunale di Modena, Fondazione Teatri di Piacenza, Fondazione I Teatri di Reggio Emilia, Fondazione Ravenna Manifestazioni, Fondazione Teatro Regio di Parma

Allestimento in coproduzione con Opéra de Toulon

 

 

di Attilio Cantore


Quando si tratta di mettere in connessione il teatro lirico con i moti rivoluzionari del 1789, il grande pubblico certamente non pensa minimamente alle sfortunate vicende della famiglia de Lanjallay presentate nella Marie Victoire di Ottorino Respighi, né peraltro sospetta che Giacomo Puccini per ben dieci anni bramò una Maria Antonietta da far «esploitar[e]» alla solerte Casa Ricordi. Più tosto, puntualmente, il primo e supremo titolo del repertorio operistico che prepotentemente sovviene alla mente è senza orma di dubbio l’Andrea Chénier. Un dramma di ambiente storico in quattro quadri confezionato dal librettista Luigi Illica che per virtù di inarrestabile successo, dalla première scaligera del 28 marzo 1896 in poi, costò al compositore foggiano Umberto Giordano una certa tal quale “condanna al capolavoro”: «Andrea Chénier!, Andrea Chénier! Sempre mi rinfacciano, dirò così, questa opera! Come se non avessi scritto altro!».

Dopo essere approdato nei Teatri di Modena, Piacenza, Reggio Emilia e Ravenna, il nuovo allestimento dell’opera firmato da Nicola Berloffa, in coproduzione con l’Opéra de Toulon, arriva adesso nella città di Parma, ultima tappa italiana.

La regia di Berloffa si bilancia sui due piatti di un mondo gemino: se da un lato tenta di essere godibile e velleitariamente eversiva, dall’altro è affetta imperdonabilmente da perniciosa incomplétude drammaturgica. Su tali convenienze e inconvenienze teatrali abbiamo comunque già avuto modo di soffermarci in una precedente recensione. All’ingrosso e al dettaglio, basti rimarcare che dallo stress test fra partitura operistica e sua mise en scène si evince essenzialmente un dato: pur rimanendo ideologicamente fedele alla tradizione, tale spettacolo indulge æquo animo nell’offrire un presque dévoilement del più rocambolesco delirare (etimologicamente parlando), uscendo sovente dal solco e dal seminato di quella che i francesi comunemente chiamerebbero une piece bien faite.

Le recite del 5 e 7 aprile al Teatro Regio di Parma hanno visto sul podio Giovanni Di Stefano, per l’occasione guida preziosa dell’Orchestra Regionale dell’Emilia-Romagna “Arturo Toscanini”. Con levigato bilanciamento sonoro e calibrato equilibrio stilistico, la densa partitura di Giordano non viene dissestata in alcun punto per restituire, in beatitudine “verista”, il sentimento vivo e palpitante della semantica compositiva. Senza sfrontierare in eccessi e pesantezze gratuite, Di Stefano concerta tutto con giudiziosità e mestiere: impeccabile rifinitezza nel fraseggio e pervasivo impulso ritmico sottopelle trascinano il pubblico in un flusso di appaganti suggestioni, des sens à l’esprit.

Il Coro Lirico Terre Verdiane istruito da Stefano Colò si inserisce con duttilità nella regia, tratteggiando la couleur locale storica del XVIII secolo che l’opera reca biologicamente in sé, specialmente nei suoi tratti più tumultuosi o leziosamente incipriati.

Il Teatro Regio tributa ovazioni e consensi all’intera compagnia di canto, complessivamente egregia nelle voci e nel gesto. Alla recita di domenica 7 aprile è presente in sala anche la grande Renata Scotto, accolta da un accorato applauso e irrefrenabile entusiasmo dei presenti.

Il soprano Teresa Romano debutta il ruolo di Maddalena di Coigny con esiti di alta qualità, puntando a preservare i tratti di settecentesca eleganza della contessina. Forse appena indietro rispetto all’esagerazione sentimentale che appartiene alla grammatica di quest’opera, conferisce ugualmente un bell’equilibrio interpretativo che convince appieno, venendo premiato lusinghieramente dal pubblico. Espressività e grazia luneggiano note azzurre di immacolata freschezza. La pregevolezza della grana vocale soprattutto nella zona centrale seduce, per rosea tristezza, nella memorabile aria «La mamma morta».

L’outfit dell’Andrea Chénier di Martin Muehle ricorda vagamente quello di Goethe. È fiero e nobile il nostro sventurato poeta ed il suo accento è eroico e nostalgico. Assolve appassionatamente l’impervia parte tenorile con fraseggio eloquente, schierando tatticamente in campo acuti facili e potenti.

Carlo Gérard lotta contro le geografie solenni dei limiti umani imposti dall’aristocrazia, innescando giacobine apostasie e glorificando ubiquitariamente la falsa incorruttibilità di Robespierre. Presenza di grande fisicità e forte autorità, il baritono Claudio Sgura domina la scena e funge da vero e superbo catalizzatore per l’intero cast. Voce potente e sontuosa, di caratura eccezionale come poche, sbalordisce per la viscerale immedesimazione nel personaggio. Il fragore dei migliori «Bravo!» è a lui giustamente riservato.

Successo anche per i comprimari: una pléiade di giovani cantanti, ma con pochissime punte di eccellenza. Sopra tutti, impeccabile sul piano vocale e magnetico per la condotta scenica, il baritono Stefano Marchisio dimostra con sfavillante verve che il personaggio di Roucher è realmente complementare a quello dell’amico Chénier al fine dell’equilibrio assiologico dell’opera: due poeti, uniti nella fratellanza. La Bersi del mezzosoprano Nozomi Kato possiede dizione impeccabile e tecnica sicura. Presenza emotiva e squisita natura teatrale caratterizzano la «vecchia Madelon» del mezzosoprano Antonella Colaianni. Equilibrato e preciso Alex Martini nel doppio ruolo di Fléville e Tinville. L’impegno di questi non può però nascondere i meno convincenti Shay Bloch, che costruisce una Contessa con scarsissimi mezzi, Alfonso Zambuto, Incredibile dal timbro opalescente, e Felipe Oliveira, Mathieu dal gran volume di suono ma poco altro. Completano il cast Roberto Carli (l’Abate), Stefano Cescatti (Schmidt) e Luca Marcheselli (Maestro di casa/Dumas).

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