Andrea Chénier fra Modena e Piacenza, di Attilio Cantore
ANDREA CHÉNIER
Umberto Giordano
Dramma di ambiente storico in quattro quadri
Libretto di Luigi Illica
Direttore Aldo Sisillo
Regia Nicola Berloffa
Personaggi e interpreti:
- Andrea Chénier Martin Muehle
- Carlo Gérard Claudio Sgura
- Maddalena di Coigny Saioa Hernández
- La mulatta Bersi Nozomi Kato
- La Contessa di Coigny Shay Bloch
- Madelon Antonella Colaianni
- Roucher Stefano Marchisio
- Pietro Fléville / Fouquier Tinville Alex Martini
- Il sanculotto Mathieu Fellipe Oliveira
- Un “Incredibile” Alfonso Zambuto
- L’Abate Roberto Carli
- Schmidt Stefano Cescatti
- Il Maestro di Casa / Dumas Luca Marcheselli
Scene Justin Arienti
Costumi Edoardo Russo
Luci Valerio Tiberi
Maestro del coro Stefano Colò
Assistente alla regia Veronica Bolognani
Orchestra Regionale dell’Emilia-Romagna
Coro: Associazione Coro Lirico Terre Verdiane – Fondazione Teatro Comunale di Modena
Coproduzione Fondazione Teatro Comunale di Modena
Fondazione Teatri di Piacenza, Fondazione I Teatri di Reggio Emilia
Fondazione Ravenna Manifestazioni, Fondazione Teatro Regio di Parma
Allestimento in coproduzione con Opéra de Toulon
NUOVO ALLESTIMENTO
a cura di Attilio Cantore
È sempre difficile fare il ritratto di un artista. Anche se si prendono le dovute precauzioni e ci si mette al sicuro con numerose garanzie, si potrebbe rischiare – più o meno consapevolmente, per giunta – di esagerare in qualche modo, in senso positivo o negativo. I contemporanei, non potendo godere della giusta distanza critica dagli eventi, difficilmente risultano essere immuni da tale pericolo; a malapena lo è lo storico. Ma allora come offrire nella maniera più opportuna e convincente un senso a quel petit tas de secrets che caratterizza la vita di uno dei vessilliferi della “Giovane Scuola”? Umberto Giordano, lungi dal cristallizzarsi nei paralizzanti reliquiari nostalgici del più spicciolo romanticismo, non andò neppure mai confinandosi nel reclusorio delle tendenze comuni che vogliono smerciare “prodotti brandizzati” da far piacere al pubblico a tutti i costi. Al contrario, grazie a un suo linguaggio originalissimo, che si collocava «fra gli impeti di Mascagni e la circospezione di Puccini» (Enrico Magni Dufflocq), illuminò algebre mai vegliate e indicò un felice approdo al teatro lirico italiano, promuovendo un “verismo” «né crudo né esasperante». Infatti, come registrò Tomasino d’Amico, «del romanticismo egli non combatté ciò che esso aveva di sano e di vitale, ma ripudiò soltanto le astruserie, gli sdilinquimenti». Con la sua musica, Giordano dimostra a ogni passo di essere «verista senza ricorrere ai lenocinii delle dissonanze astruse, dei ritmi scabrosi, delle volgarità banali anche quando queste, come alcune scene dello Chénier […], sarebbero state richieste dalla situazione» (Enrico Favilli, Il piccolo Fétis, 1925). Proprio di tale opera ci occupiamo in questa sede, senza peraltro dar troppo peso alla “condanna al capolavoro” che, per virtù di inarrestabile successo, costò al suo autore: «Andrea Chénier!, Andrea Chénier! Sempre mi rinfacciano, dirò così, questa opera! Come se non avessi scritto altro!».
Nel luglio 1894 la Casa Musicale Sonzogno aveva «trovato di suo aggradimento» la tela approntata da Luigi Illica. Il meno era fatto! Giordano lascia di gran carriera Napoli così come la madre ammalata. Per poter lavorare gomito a gomito con il suo librettista si trasferisce a Milano, trovando una precaria sistemazione in via Bramante n. 39, in un lugubre locale in fondo alla corte interna adibito a deposito di attrezzeria funebre, di proprietà di uno scultore. Illica non può credere che si possa scrivere serenamente in un postaccio del genere. Il musicista, con garganica pervicacia, replicava: «Non preoccuparti: dammi dei buoni versi ché al resto penso io!». Erano momenti galvanizzanti. Illica era impegnato contemporaneamente nella stesura del libretto di Bohème per Giacomo Puccini. La gestazione di Andrea Chénier durò circa un anno e mezzo («Vivo talmente di Chénier che mi dimentico delle altre cose»), anche se probabilmente già nella primavera del 1895 il tutto si poteva ritenere già ampiamente definito, se è vero che il 15 aprile 1895 Giordano informava il padre di essere andato in Svizzera «per vedere Massenet poiché gli vorrò fare sentire lo Chénier». Con il dramma di ambiente storico in quattro quadri musicato da Giordano il Teatro alla Scala chiudeva la sua Stagione 1895-1896. Persino la «Gazzetta Musicale» (benché la Casa Ricordi fosse notoriamente rivale della Sonzogno) fu costretta ad ammettere che «per le rappresentazioni dello Chénier il teatro si mantenne sempre brillante». Alla première scaligera del 28 marzo 1896 aveva preso parte anche Olga Spatz, la figlia del proprietario del rinomatissimo Grand Hotel et de Milan, che da un palco del primo ordine applaudiva come semplice spettatrice quel giovane compositore pugliese che, qualche mese più tardi (il 18 novembre, per l’esattezza) sarebbe diventato suo marito. Sotto gli auspici del melodramma, l’amore trionfa!
Il Teatro Comunale “Luciano Pavarotti” di Modena ha offerto un nuovo allestimento dell’Andrea Chénier in coproduzione con l’Opéra de Toulon, unitamente ai Teatri di Piacenza, Reggio Emilia, Ravenna e Parma. Abbiamo seguito le recite anche al Teatro Municipale di Piacenza, impegnato in una lodevole valorizzazione del prezioso lascito culturale e letterario del conterraneo Luigi Illica, di cui quest’anno il Teatro celebra il centenario della morte con due titoli della Stagione: Andrea Chénier, appunto, e Tosca (il prossimo 15 e 17 aprile).
Sul podio, il maestro Aldo Sisillo guida l’Orchestra Regionale dell’Emilia-Romagna senza grandi slanci di immaginazione ma con buone calibrature di tempi e modi che non dissestano o sbilanciano in nessun punto lo stile dell’opera. Il Coro Lirico Terre Verdiane istruito da Stefano Colò sa appropriatamente tratteggiare la couleur locale storica del XVIII secolo che l’opera di Giordano reca biologicamente in sé, specialmente nei suoi tratti più tumultuosi o leziosamente incipriati. Suggestivo il laminato gioco di luci del light designer Valerio Tiberi volto a valorizzare superbamente i costumi di Edoardo Russo e soprattutto l’assetto scenico di Justin Arienti, dall’ottimo impatto visivo.
Giunti a questo punto è necessario aprire però un dossier digressivo sul lavoro di Nicola Berloffa. Lo stress test fra partitura operistica e sua mise en scène rivela che, come spesso accade, una lettura che immette con la forza una tal quale interpretazione in un testo, invece di dedurla da ciò che scrupolosamente vi è contenuto, rischia quasi certamente di creare una drammaturgia succedanea. La regia di Berloffa è, sì, complessivamente godibile ma al contempo velleitariamente giudiziosa. Dalla lista del coiffeur vengono derubricati ad esempio i «capelli biondi» della protagonista (Maddalena sfoggiava una capigliatura dal vivido colore ramato!) e da quella dell’attrezzeria l’«azzurro sofà»: ma tali cose, per certo, non provocheranno spasimi stomachici ai più ritrosi dei loggionisti.
D’altro canto l’attrezzeria si arricchisce, per infausta sorte, di un inutile e fastidioso ombrello, brandito dall’Incredibile, che per poco non si rompe al “vento della rivoluzione” (immagine che neppure Pamela Lyndon Travers avrebbe pensato per la sua Mary svolazzante nei cieli grigi londinesi). Questo siparietto, che fa pariglia con la triviale performance idraulica del sanculotto Mathieu, impegnato a mingere in un angolo della strada (forse sulla testa di Marat – che non c’è?), siamo altrettanto sicuri che non scandalizzerà minimamente le signore più compite. Una pruriginosa curiosità spingerebbe a chiederci poi il perché degli anti-estetici tic spastici dell’anziano padre di Gérard, che entra in scena buissonnier, con andatura ebete… ma forse è meglio non indagare. E dove sono finite le pistole di Roucher dinanzi alle quali, come da tradizione, l’Incredibile trema e scappa via? Non servono affatto i rossi scaracchi di un moschetto e il sibilare di proiettili, ma, all’eccesso opposto, risulta inverosimile che il poeta Roucher, amico di Chénier, riesca a salvare la contessina di Coigny con surreale understatement, senza impugnare nessuna arma. Grande nonchalance da pacifisti, si dirà. Eh no!, rimbrottano certi attenti osservatori dalla quinta fila: il personaggio – lo si vede chiaramente! – ha un gran spadone che pencola al fianco, debitamente inguainato, per l’intero corso dell’opera. E come non notarlo!? Anche Chénier ne ha uno tutto lucido, da usare baldanzosamente nel duello con Gérard. Forse sarebbe stato più consona la presenza di un bastone animato.
Poiché, di grazia, da quando in quando i poeti girano in città (per di più durante il Terrore) con la «sciabla al fianco»? Tutte queste sono bagatelle, forse robe da snob-in-progress, che non vogliono minimamente intaccare il valore del gioioso zapping che il regista fa serenamente tra quello che più gli piace, senza curarsi della coerenza.
Lascia però quantomeno basiti l’uccisione in scena della Contessa, a ritmo di musica (come in un riflesso truculento della più gaia tradizione operettistica). Alla festa in giardino organizzata dai Coigny irrompono i rivoluzionari, cui si è unito il famiglio Carlo Gérard. Coup de théâtre: la famosissima tela di madame Vigée Le Brun che ritrae Maria Antonietta e i suoi figli (simbolicamente, tutto l’Ancien Régime) all’improvviso cade e dalla cornice prorompe la «voce di chi soffre». Effetto abracadabrantesque! Poco dopo, insieme alla rivoltosa marmaglia invelenita se ne andranno però anche tutti gli aristocratici ospiti della serata. La Contessa invita le dame a riprendere «l’interrotta gavotta». A chi parla? Non c’è più nessuno ormai. Ecco che si sono persi in un colpo solo senso del libretto e tensione drammatica. Sfrontierando nel ridicolo, o nella follia, la Contessa di Coigny canta da sola, vaneggia, e sembra finanche immolarsi per la salvezza di tutta la Francia blasonata (ecce femina della Versailles più conservatrice?) quando si concede liberamente e spontaneamente alla ferocia di un drappello di ex-servitori: questi, dopo essersi strappati di dosso le livree non senza una sottile venatura erotica, trucidano infatti la loro padrona con delle picche acuminate… Peccato che la morte della Contessa sia puntualmente descritta dalla figlia, Maddalena, qualche pagina di libretto più avanti, cioè nella memorabile aria «La mamma morta». Tutti questi tasselli, e altri ancora, contribuiscono a configurare il mosaico di una regia che, pur rimanendo ideologicamente fedele alla tradizione, si concede momenti deliranti (se è vero che delirare, etimologicamente, significa precisamente uscire dal solco, dal seminato).
Il cast è capitanato da tre interpreti formidabili. Fresca del successo scaligero con l’Attila diretto da Riccardo Chailly, Saioa Hernández debutta trionfalmente il ruolo di Maddalena di Coigny. Il soprano madrileno è l’idolo del pubblico: fonte di irresistibile fascinazione sono i suoi acuti sferzanti, il suo imperioso registro medio e i suoi ruvidi gravi di petto. Al suo fianco, «fino alla morte insiem», il travolgente Andrea Chénier di Martin Muehle, tenore tedesco-brasiliano dalla eroica forza scultorea nel canto, con acuti facili e potenti. Sbalorditivo per immedesimazione nel personaggio, il Carlo Gérard del baritono pugliese Claudio Sgura, voce potente impreziosita da un amalgama timbrico denso e brunito.
Successo vivace anche per i comprimari, una rimarchevole pléiade di giovani cantanti: fra tutti, si segnalano senza dubbio il Roucher del baritono Stefano Marchisio, dotato di allure teatrale invidiabile e voce possente dalle ricchissime sfumature e potenzialità; la Bersi del mezzosoprano Nozomi Kato vanta tecnica sicura e nitida dizione; la «vecchia Madelon» del mezzosoprano Antonella Colaianni, meritevole di una struggente e molto apprezzata interpretazione del ruolo. Completano il cast Shay Bloch (Contessa), Alex Martini (Fléville/Tinville), Felipe Oliveira (Mathieu), Alfonso Zambuto (Incredibile), Roberto Carli (l’Abate), Stefano Cescatti (Schmidt) e Luca Marcheselli (Maestro di casa/Dumas).