FIRENZE: la Traviata, 5 dicembre 2018
La traviata
Giuseppe Verdi
Della bella operazione del Teatro del Maggio Musicale Fiorentino di allestire contemporaneamente le riprese degli spettacoli di Carmen e Traviata di quest’anno abbiamo già discusso qui. Ci soffermiamo pertanto da subito sul bell’allestimento della Traviata di Francesco Micheli ripresa da Valentino Villa, con scene di Federica Parolini e luci di Daniele Naldi. Lo abbiamo sentito criticare con toni non troppo entusiastici; e dopo averlo visto dal vivo, sinceramente, fatichiamo a comprenderne il perché, eccettuando i costumi certamente non memorabili di Alessio Rosati, con punte di franca bizzarria nei mezzibusti femminili bronzati con seni prorompenti del secondo finale. La scena è quasi completamente spoglia, salvo pochi arredi in stile sobriamente classico; a farla da padrone, tre grandi pannelli luminosi – con gigantesco tricolore campeggiante prima dell’inizio dell’opera – che delineano i confini di tutti gli ambienti. Si tratta di uno spettacolo che andrebbe visto con occhio all’intera trilogia popolare curata da Micheli, dove ad ogni titolo è assegnato uno dei tre colori della bandiera nazionale; nel caso della Traviata, il bianco – come sono bianche le camelie de La dame aux camélias, come è bianco il colore della purezza e dell’innocenza della protagonista. E se suona un po’ surreale parlare di purezza ed innocenza per Violetta Valéry, che in fin dei conti non ha propriamente una storia di virginale e sobrio candore, vuol dire che già un punto registico è azzeccato. Violetta ha in effetti dentro di sé un candore fulgente, al punto da accettare con eroico stoicismo prima la feroce e blasfema separazione dal primo vero amore della sua vita, poi il supremo e disperato insulto da parte dello stesso inconscio amore, infine il crudo destino della malattia. Proprio per questo ci pare tutto sommato ben funzionante la scelta registica di Micheli, in cui è approfonditamente scavato l’aspetto psicologico della vicenda, senza necessità di accenti né violenti, né sentimentalistici, né lussuriosi; l’aspetto cromaticamente archetipico della scena ci sembra efficace proprio in quanto diretto ad una visione nitida e simbolica della via crucis della protagonista. I cangianti abbinamenti di colori puri sono impressionanti ma non faticosi; la luce dura che ne deriva è spesso fonte di immagini particolarmente potenti e riuscite, una fra tutte l’allontanamento finale di Violetta dalla scena, più una sublimazione trascendente che una morte fisica. È proprio questa la forza inconfessabile che rende la Traviata uno dei capolavori più eterni della storia del melodramma, che acquista una dimensione autenticamente universale, che travalica di molto i confini della storia d’amore, e che ha a che fare con un problema radicale, quasi fenomenologico, ossia lo stretto rapporto che intercorre tra apparenza, libertà e morale.
Ammirevolmente conscio di tutti questi aspetti il podio di Enrico Calesso. Avevamo già avuto modo di apprezzarlo nello stesso titolo alla Fenice (qui la recensione), e anche questa volta si è dimostrato particolarmente capace nell’offrire una lettura psicologicamente attenta e sottile di una partitura che, ahinoi, patisce spesso del prezzo della popolarità. Si tratta in effetti di una visione decisamente originale; le scelte agogiche, ad esempio, sono a tratti non convenzionali ma certamente al servizio della parola in una maniera che è raro riscontrare nei grandi titoli verdiani e comunque sempre con un profondo rispetto del testo e del fraseggio; troviamo che questo sia il vero modo di non essere appesantiti dalla prassi come culto delle ceneri, ma di tenere salda la tradizione come conservazione del fuoco, al di là delle questionabili e poco significative divergenze di gusti su acuti non scritti sì o no, su da capo sì o no, eccetera. Se dal punto di vista interpretativo c’è una piena riuscita, trasportando l’ascoltatore su un piano in cui è impossibile sfuggire al pathos della vicenda, certamente non è da meno l’aspetto tecnico. Il gesto è sicuro e sempre efficace, particolarmente nei concertati; l’equilibrio fonico è molto curato e ben calibrato al cast, il volume non è mai soverchiante ma la sonorità riesce comunque piena e particolarmente entusiasmante nei momenti corali, più di tutto nel finale secondo. Un meritato trionfo alla ribalta finale. L’Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino è del resto compagine che rende giustizia alle scelte più delicate con perfetta aderenza e timbrica impeccabile.
Il ruolo eponimo di Ekaterina Bakanova parte con cautela nel primo atto (saggiamente evita l’acuto della cabaletta) ma sfoggia poi una plasticità di gran classe e soprattutto un’impressionante efficacia scenica: siamo di fronte non solo ad una buona cantante, capace di spaziare dalle agilità più spedite con intonazione inappuntabile al trasognato e disperato lirismo dell’Addio del passato con adeguatezza, ma ad una superba attrice, capace di autentica commozione nel duettino della dipartita nel secondo atto, peraltro interpretata con grande musicalità. È un peccato che la dizione sia decisamente incerta; risolto questo, che poi dovrebbe essere poca cosa, il ruolo è già completo e maturo.
Antonio Poli, reduce da un’indisposizione che lo ha obbligato a rinunciare alla prima e di cui qualche piccolo strascico è ancora udibile, è un ottimo Alfredo. Inizia con circospezione, ma ben presto si rassicura e lascia libero il bellissimo timbro, capace di una inconsueta ma piacevolissima brunitura nel registro grave e molto facile in acuto, penetrante ma non schiacciato. Il volume non esuberante non limita, anzi rende più raffinato il fraseggio; impressionante la mezza voce di Parigi, o cara. Una prova molto positiva.
Più di tutti per vocalità abbiamo apprezzato il Germont padre di Simone del Savio; il timbro è squisitamente verdiano, c’è profonda sicurezza e grande facilità, con suoni che si aprono efficacemente nella transizione di registro e che pertanto arrivano con volume torrenziale e ricchi di armonici. Il personaggio è un po’ impostato ma ben tratteggiato. Grandi applausi a scena aperta per Di Provenza.
Molto bene anche la Flora di Ana Victoria Pitts, bella voce di autentico mezzo e ottima arte scenica. Buoni tutti i comprimari, tra cui spicca il Douphol di Dario Shikhmiri.
Di indubbia efficacia il Coro del Maggio Musicale Fiorentino, che affronta le pagine più celebri con ottimo amalgama e ricchissimo impatto di volume, fraseggio attento e gamma dinamica notevole. Bravi, e bravo il M.° Lorenzo Fratini.
Paolo T. Fiume