Intervista: GIAMPIERO SOLARI

Intervista: GIAMPIERO SOLARI

  • 18/11/2015

Come è iniziato il suo rapporto con il teatro?

Mi ritengo molto fortunato. In Perù, a Lima dove sono nato e cresciuto, mio padre, che era operaio, era talmente appassionato di teatro da produrre spettacoli ai quali io ho partecipato fin da piccolo. La sua passione lo ha portato addirittura ad organizzare tournèe di grandi compagnie internazionali. All’età di undici anni ho avuto modo di conoscere il lavoro delle Compagnia di danza di Martha Graham, Merce Cunningham o Alwin Nikolais. A sedici o diciassette anni ho fatto la mia prima regia coi compagni di scuola.
Poi sono venuto in Italia a Milano alla Scuola Civica che allora era annessa al Piccolo Teatro. Mi sono diplomato e, subito dopo, mi hanno proposto di lavorare come insegnante.

E’ alla Scuola che ha incontrato Carlo Cecchi? Che ricordi ha di lui?

Già durante l’ultimo anno della scuola, avevo ventidue anni, abbiamo realizzato uno spettacolo che Carlo ha voluto firmassimo assieme. Considero lui come mio primo grande maestro. Di lui mi è sempre piaciuto il punto di partenza, che per me è diventato un costante riferimento: essere in scena prima di essere personaggio. Solo questo: la consapevolezza dello stare in scena, permette di dare vera sostanza al testo e di rendere concrete tutte le battute anche quelle apparentemente non importanti.

Quanto è contato per lei aver avuto l’insegnamento dei maestri e chi ritiene siano stati i suoi maestri?

Ci sono maestri che frequenti per lungo tempo e altri con i quali basta anche un incontro che si trasforma in una epifania. L’importante è saper cogliere lo stimolo, “fare tua” un’idea, una visione.
Le “visioni” e le idee di teatro che ho cercato di fare mie sono quelle di artisti diversissimi fra loro: Cecchi, Eduardo De Filippo, Peter Brook, Luca Ronconi i quali sono, per me, maestri in qualche modo archetipici, esemplari. Per alcune idee di scenografiche e di uso dello spazio scenico il lavoro di Gae Aulenti è stato per me un punto di riferimento.

Lei ha diretto molti dei maggiori show televisivi degli ultimi venti anni. Quali sono le differenze e quali le analogie fra il dirigere uno spettacolo teatrale ed uno televisivo?

Poche. In realtà sono io che creo le eventuali analogie. Nel ’94 feci con Paolo Rossi Su la testa con grande libertà seguendo un mio modo di pensare e di creare lo spettacolo con una idea abbastanza precisa di stile televisivo. Stile che ho utilizzato e, credo, perfezionato, negli spettacoli con Rosario Fiorello e Giorgio Panariello. Spesso ho riflettuto, soprattutto per i lavori realizzati per RAI 1, sul rapporto con quella tradizione tipicamente italiana che ha avuto come maggior artefice Antonello Falqui. Una tradizione che non andava persa ma sviluppata con i mezzi tecnici attuali. Io ho cercato sempre di mantenere un elemento indispensabile e proprio del teatro: la necessità di provare a lungo. A volte è vero che utilizzo le mie esperienze teatrali nella televisione, ma anche nel teatro mi piace usare elementi tecnici e stilistici che la televisione mi ha fatto conoscere e sperimentare: un certo uso delle luci e della tecnologia che, credo, riesco a non subire e a indirizzare come mezzo espressivo.

Cosa si ricorda di positivo e negativo della sua esperienza di direttore artistico di un teatro pubblico?

Ho sicuramente un ricordo positivo. Sono stato nominato alla direzione dello Stabile delle Marche in concomitanza con il riconoscimento pubblico di questo ente. Essendo appena nati come teatro pubblico avevamo pochi finanziamenti ma più libertà rispetto ad altre strutture storiche. Dovevo, dovevamo inventarci una nuova identità di teatro pubblico. Oggi il nuovo quadro nazionale che regola il teatro ha irrigidito maggiormente i diversi teatri stabili (anzi Nazionali o TRIC) che ormai si assomigliano tutti e propongono agli spettatori quasi un unico “prodotto” teatrale. In questo modo i teatri si omologano su un livello basso dando vita ad un pubblico “appiattito e consenziente”.

Lei ha collaborato spessissimo con Bibi Ballandi: un grande imprenditore come lui pensa che accetterebbe mai di dirigere un teatro pubblico?

Credo proprio di no. Lui è l’ultimo grande gentiluomo della vecchia guardia di impresari, di persone che comunque hanno sempre rischiato di tasca propria ed innovato. Noi siamo l’opposto l’uno dell’altro, Io lo apprezzo e stimo moltissimo proprio perché lui rispetta tutto ciò che io faccio. Mi ha sempre dato carta bianca ed è una cosa rara, soprattutto per un ruolo come il suo in cui si deve spesso trattare con istituzioni come la RAI.

Scritturare attori televisivi noti, serve per portare del pubblico a teatro? Non c’è il rischio che l’attore riproponga la sua immagine televisiva, per paura di deludere le aspettative del pubblico?

Con lo stabile delle Marche ho diretto il Borghese Gentiluomo di Moliere con Giorgio Panariello perché con lui c’era già una precedente collaborazione e una forte stima. Panariello ha una natura di attore serio. Anche se non ha studiato tanto è molto più bravo di altri che lo hanno fatto per lungo tempo e in scuole prestigiose. Nel caso de Il borghese avevo un’idea precisissima del personaggio che avrei voluto e lui era perfetto. Abbiamo debuttato a Prato di fronte ad un pubblico “borghese o piccolo borghese” che pareva si specchiasse in quel “parvenue” e vi si riconoscesse pienamente. Inoltre Giorgio Panariello non ha mai cercato, con lo spettacolo, di compiacere il pubblico riproponendo il suo repertorio televisivo. Finché era sul palco non si toglieva mai i panni di Mounsier Jourdain. Paradossalmente i Teatri Stabili ci hanno punito accusandoci di aver usato un personaggio televisivo.
Oggi invece, otto o nove anni dopo, tutti mi chiedono di coinvolgere “star televisive” ma non mi interessa, mi irrita. Non hanno capito che io faccio solo quello che sento.
Con Fiorello, ad esempio, ci siamo conosciuti ed abbiamo avuto voglia di lavorare assieme in un momento di sua non fortuna artistica. Tutti mi dissero che ero matto.

Iva Zanicchi, in una trasmissione di giovani talenti, qualche settimana fa disse questa frase: “Dai è riuscito bene anche se non abbiamo provato per niente”. Questo può essere una regola per la televisione di oggi?

Ho avuto la fortuna di incontrare una volta proprio Antonello Falqui, abbiamo fatto un colloquio lunghissimo: lui aveva sei mesi a disposizione per le prove di un grande show. Io, per programmi importanti, ho avuto al massimo gli ultimi 10 giorni di prova ed anche meno. Ma, in realtà, io come autore e regista lavoro su un programma da molto prima e arrivo già con una sostanziale definizione dell’anima dello spettacolo. Prima delle prove il mio contenitore è già molto preciso nelle inquadrature, nella scenografia, nella fotografia.
Non sarei capace di adattarmi ad un altro modo di fare televisione. Confesso, però, che vedo poca televisione di “intrattenimento”.

A parte alcuni grossi professionisti, vedasi uno su tutti Fiorello, la TV di oggi sembra popolata da gente senza un background ed una identità professionale precisa. Come mai questo fenomeno?

Oggi si lavora per formati e se un formato non è stato testato ha pochissima possibilità di essere inserito nel palinsesto. Gli show che facciamo noi sono definiti come “speciali” o “eventi” e non hanno riferimenti se non a quello stesso show, quindi spiazzano la gente. Possono anche non riuscire ma per fortuna per ora li stiamo facendo bene ottenendo un grande consenso.
Per i presentatori di un tempo come Corrado, Mike Bongiorno, Pippo Baudo, era indispensabile prepararsi su quello che stavano facendo. Mentre quelli di oggi, come Vittoria Cabello o Alessandro Cattelan, riproducono modelli esistenti molto legati a quelli americani e, per questo, invece di essere una novità fanno l’effetto contrario. Lo stesso Fazio è un rifacimento di questi talk show, lui lo ha edulcorato, cercato di cambiare ma alla fine è sempre la stessa cosa.

Lei è passato dalle sfarzose produzioni televisive con grandi star alla regia del rossiniano Viaggio a Reims al Teatro Coccia di Novara, con un cast di giovani artisti e, immagino, con un budget ridotto: quali difficoltà ha incontrato e quali soddisfazioni ha avuto?

Più che il budget conta l’organizzazione e il teatro Coccia di Novara da questo punto di vista eccelle. Un teatro che rischia, e ciò mi piace, perché ha persone e competenze che gli permettono tale rischio. È il caso di Renato Bonajuto un attento osservatore della realtà musicale e lirica e un grande promotore di talenti. E stato lui a suggerirmi gli interpreti giusti per i personaggi dell’opera facendomi ascoltare le loro interpretazioni precedenti. In questo modo abbiamo costruito un cast giovane ma all’altezza di un impegno come quello del Viaggio a Reims. Devo dire che senza il suo contributo e la sua competenza non avremmo ottenuto il risultato che abbiamo ottenuto.
La regia di un Opera è sempre una avventura nuova per me. Quando ero ancora allievo lavorai alla Scala come assistente alla regia collaborando con Zeffirelli, con Lyubimov e con Pizzi.
Ma quella della Lirica è una “macchina” che ancora conosco poco. Si, ho fatto anche l’Aida a Verona ma, quella credo sia una dimensione produttiva a parte.
Il teatro di prosa può essere realizzato attraverso relazioni più “piccole e dirette”. Mentre nell’Opera no, devi maggiormente fare i conti con realtà e ruoli strutturati a cominciare dal Direttore d’orchestra, passando per i cantanti per finire con l’intera orchestra e le maestranze.
Nella prosa, poi, riesci a provare dall’inizio al debutto con tutta la compagnia, nell’Opera non sempre accade e soprattutto in questa Opera dove ci sono molti personaggi che compaiono anche solo per una o poche scene. Ho lavorato con interpreti che un giorno erano con me a Novara e il giorno dopo al San Carlo di Napoli o a Mosca per un altro lavoro. A volte passavano più giorni prima che li rivedessi. Non è stato facile lavorare con continuità. Però siamo riusciti, piano piano, a creare un gruppo di lavoro omogeneo. Probabilmente perché ho lavorato con giovani capaci, di grande disponibilità, curiosità e con un forte entusiasmo. Fra l’altro erano perfetti per i ruoli sia musicalmente, come timbri e qualità tecnica, che fisicamente.

L’esperienza che ha sviluppato frequentando abitualmente la commedia classica e contemporanea, da Moliere a Frayn, le è stata utile nella messa in scena del Viaggio a Reims, un’opera di circostanza ma sottilmente ironica nei confronti del potere e della società del tempo?

Tutto è utile. Ho affrontato autori come Moliére e Frayn, creato personaggi come Antonio Albanese, scritto testi per Fiorello per poi tornare a Frayn o a Yasmina Reza. Tutto mi è stato ed è utile. L’importante è fare sintesi e non confusione.

Del Viaggio a Reims per la regia di Luca Ronconi a Pesaro nel 1984 che ricordo conserva?

Meraviglioso! Io tra l’altro sono residente a Pesaro, conosco molto bene Gianfranco Mariotti e la realtà del ROF. Ogni anno vado a vedere gli spettacoli. Ho un grande rispetto per Rossini.
La regia di Ronconi è stata dirompente in relazione al tempo in cui è stata realizzata. L’utilizzo della tecnologia con le parti filmate furono una novità per l’epoca. Oggi lo stesso “stratagemma” sarebbe datato perché assorbito dalla televisione dove spesso, troppo spesso, immagini filmate fanno da sfondo scenografico bidimensionale a personaggi in carne ed ossa senza che ve ne sia necessità.
Quando lo spettacolo di Ronconi fu ripreso alla Scala già l’uso dei filmati aveva perso efficacia e il “Corteo” di Carlo X sembrava una rievocazione un po’ paesana. Ieri, ad esempio, ho visto in una piazza un bar sovrastato da immagini trasmesse da schermi led di alta tecnologia. Un bar dico. Usare oggi un video in uno spettacolo senza che ciò sia necessario e essenziale non è affatto innovativo, anzi , credo sia una cosa “vecchiotta”, datata.
Beninteso che quella edizione aveva un cast pazzesco, stellare, meraviglioso dal punto di vista musicale. Ho conosciuto abbastanza Ronconi e conversato spesso con lui. Mentre lavoravo al “mio” Viaggio a Reims ho però recentemente riflettuto sul fatto di non avergli mai chiesto perché abbia voluto far arrivare Carlo X visto che i protagonisti non partono mai e quindi mai lo incontrano.

Pensa che il teatro d’oggi manchi di memoria?

La memoria storica della regia per me esiste e la uso, sono consapevole di essere “erede” di un teatro che non può prescindere da alcuni fondamentali come quelli della biomeccanica di Meyerhold che rompe e innova rispetto a Stanislavskij e riconosco a Lyubimov di aver traghettato Meyerhold verso il nostro tempo. Ammiro la scuola francese e i tedeschi che hanno fatto delle cose interessantissime. Credo però che insieme alla memoria storica per un attore e anche per un regista sia fondamentale la stratificazione delle propria memoria fisica personale. Quel percorso dentro i testi e i personaggi che si è sedimentato nel corpo dell’interprete.
Per la regia, nella messa in scena del Viaggio, ad esempio, l’uso dei girevoli parte della mia esperienza di regista ma anche di spettatore. Esperienza che mi ha portato a scegliere questa soluzione scenografica per raccontare la storia di un viaggio che non inizia mai e, quindi, di azioni che procedono circolarmente su se stesse. La musica di Rossini, poi, ha una forte apparenza ellittica. Sembra che proceda per ripetizioni che, in realtà, sono variazioni continue su altre variazioni continue e ciò suggerisce inevitabilmente un senso di circolarità.
Per questo ho pensato di usare i girevoli soprattutto durante i concertati. In questo modo abbiamo dato vita a una situazione acustica strana, ma egualmente efficace. Credo che ciò abbia contributo a creare una coerenza fra leggerezza musicale e dinamicità dell’impianto scenico. Ritengo infatti che debba essere la musica a suggerire le immagini.

Alexander Pereira sostiene che “in Italia siamo indietro perché non abbiamo avuto le esperienze shoccanti del teatro di Regia come nei paesi del nord Europa”. Lei che ha conosciuto direttamente il lavoro di Carmelo Bene, Giorgio Strelher, Leo de Berardinis e dello stesso Ronconi, non pensa che in Italia tutto ciò si è già visto anni da almeno 40 anni?

Nel teatro tedesco le messe in scena nascono spesso dal rapporto fra un dramaturg che rielabora e un regista. In realtà son pochissimi i lavori che sfondano la freddezza delle elaborazioni teoriche mentre molti sono quelli in cui la velleità e l’autoreferenzialità la fanno da padrone. Per non parlare dell’insopportabile snobismo di certe scelte registiche.
Penso che l’affermazione di Pereira pur volendo essere provocatoria pecchi di schematismo.
Io penso che non solo il regista debba essere anche drammaturgo ma che anche l’attore o il cantante possano essere coautori della messa in scena. Se un interprete usa il proprio corpo, usa la propria voce, usa quello che è come persona in quello che sta facendo smette di essere solo interprete per arrivare a diventare anche lui coautore dell’opera intesa come lavoro teatrale.

Qualcuno sostiene che per rinnovare il mondo dell’opera sia necessario coinvolgere registi totalmente estranei a questa tradizione e che ciò permetterebbe un vero rinnovamento. In un programma di sala di un’opera di Richard Wagner in scena in un teatro italiano, il regista ha scritto: “Non conosco Wagner. Non conosco il tedesco. Non conosco la trama. Non mi interessa nulla di ciò. Ho solo ascoltato il CD dell’opera ed ho messo in scena le impressioni che ne ho ricavato.” È mai possibile che un regista al giorno d’oggi possa vantarsi della propria ignoranza?

No. Non solo no: peggio. Io penso che uno debba avere il senso di responsabilità per il compito che gli è stato affidato, almeno il minimo sindacale del senso di responsabilità: ci sono tanti soldi che vengono investiti in un’opera, tanti, e questo atteggiamento è un’offesa verso la comunità che ti fa lavorare. Ma a volte queste affermazioni vengono fatte solo darsi arie da artista “contemporaneo” nel senso più banale del termine.
Per me questa di Novara è stata un’occasione in più per studiare e imparare. È vero che il Viaggio a Reims avendo meno tradizione di messe in scena permette più libertà e stravaganze rispetto ad una Traviata o ad un Parsifal.
Va detto che spesso i teatri e non solo scritturano registi disposti a trovare le soluzioni più facili e meno impegnative dal punto di vista produttivo.
Ad un certo punto della sua carriera Ronconi a Pesaro fece un Barbiere di Siviglia che prevedeva, in scena, un ascensore la cui costruzione sarà costata quasi 100.000 euro. Allora io gli chiesi: “Luca ma perché quell’ascensore?” E lui rispose con totale candore e quella sincerità che potevamo fra noi permetterci: “Piaceva a Gae Aulenti ed io l’ho messo”. Però li scattava quasi un desiderio di sfida da parte sua verso un sistema che sperperava denaro ed era incapace di controllare la produzione. Io credo che non sia così che si possa combattere un siffatto sistema, ma un grande come lui o come Gae Aulenti un po’ se ne fregavano è un po’ giuocavano a fare cose dirompenti che facessero notizia. Proprio come nel caso dell’arrivo televisivo di Carlo X. Per loro due era come dire “facciamo i televisivi perché questo cavolo di mondo dell’opera se lo merita” e tutti sono cascati nel gioco. Ma non si trattava di “colpi di regia” o idee estemporanee. Ronconi oltre ad essere l’uomo estremamente colto che era per ogni messa in scena studiava tantissimo, era il più preparato di tutti. Mettere i personaggi nelle vasche da bagno durante la scena finale aveva un effetto comico ma in fondo portava con se il gusto dello sberleffo. Luca col suo tono caustico diceva “I paesi europei stanno nella vasca da bagno, è questo è ciò che si meritano.” Devo dire, però che a me la soluzione delle bagnarole non piaceva molto perché mi pareva togliesse tutta la magia del finale.

Ci sarà una ripresa del Viaggio a Reims?

Per ora non so, mi spiace perché questi ragazzi si sono divertiti e impegnati molto e ciò è stato colto dal pubblico e, mi pare, dalla critica. Abbiamo insieme dato vita ad uno spettacolo frizzante che rispetta Rossini, il suo costruire uno straordinario gioco scenico e musicale su una trama e un libretto apparentemente esili. Il Viaggio a Reims è pieno di riferimenti raffinatissimi alla realtà dell’Europa del tempo. Le relazioni, i giochi e gli intrighi fra i personaggi sono lo specchio dei rapporti fra paesi come la Polonia, la Russia, la Germania. E poi c’è un meraviglioso contrasto fra l’esilità del libretto e la ricchezza della musica che Rossini risolve facendo deflagrare il testo, moltiplicandolo con una impressionante serie di variazioni e ripetizioni musicali
Credo che questa opera possa essere letta come una sorta di manifesto sul teatro comico musicale rossiniano molto più di altre famose composizioni. Un opera aperta in cui ogni pezzo inserito può essere pertinente e dare vita ad una infinità di sviluppi musicali.

Variazioni e circolarità musicale che lei ha, come accennava prima, restituito anche attraverso soluzioni sceniche ?

Si l’elemento scenico centrale era un girevole che si rifletteva in un grande specchio. Lavorare in televisione mi ha permesso di conoscere la tecnologia per usarla senza esserne succube. Delle volte la semplicità è la cosa più efficace. Lo specchio dava quasi la sensazione di una ripresa dall’alto, una immagine sintetica ma creava anche un senso di sfasamento della realtà, una sospensione. E’ stato quello del Teatro Coccia un allestimento minimale realizzato però con grande cura. Ho voluto che ci fosse un contrasto fra gli arredi moderni e i costumi d’epoca non per creare un effetto fine a se stesso, come spesso negli allestimenti tedeschi. Oggi a Versailles, nel salone degli specchi dove pranzano i capi di stato durante le riunioni internazionali, l’arredo è stato progettato da Philippe Stark: un grande tavolo antico con attorno sedie trasparenti. Da lì nasce l’idea di arredare con uno stile simile la sala dell’Hotel del Giglio.
Devo ammettere di aver provocato a volte qualche problema ai cantanti con l’uso del girevole soprattutto nei concertati ed in particolare in quello a quattordici voci. Avevano il timore, per come sono abituati, di non riuscire a vedere il Direttore d’orchestra. Ho cercato però di risolvere questa difficoltà cambiando spesso ordine delle posizioni permettendo loro di guardare il Maestro.

A cosa sta lavorando in questi giorni?

Sono arrivato ieri a Milano perché ho appena finito un lavoro su Molière con Paolo Rossi e la compagnia del Teatro Stabile di Bolzano. Negli ultimi mesi sono stato impegnato contemporaneamente con due lavori a cui tenevo molto Devo ammettere che ogni tanto fra Carlo X di Rossini e Luigi XIV di Molière rischiavo di non capirci più nulla.

Qual è l’opera che le piacerebbe dirigere?

Ne sono certo, il Wozzeck di Berg.

Domenico Gatto

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