NICOLA SALMOIRAGHI: Fedora – Umberto Giordano, Teatro alla Scala 18 ottobre 2022
FEDORA
Umberto Giordano
Nuova produzione Teatro alla Scala
Direttore Marco Armiliato
Regia Mario Martone
Personaggi e Interpreti:
- Fedora Sonya Yoncheva
- La Contessa Olga Sukarev Serena Gamberoni
- Loris Ipanov Roberto Alagna
- De Siriex George Petean
- Dimitri Caterina Piva
- Un piccolo Savoiardo Cecilia Menegatti
- Desiré Gregory Bonfatti
- Rouvel Carlo Bosi
- Cirillo Andrea Pellegrini
- Boroff Gianfranco Montresor
- Gretch Romano Dal Zovo
- Lorek Costantino Finucci
- Nicola Devis Longo
- Sergio Michele Mauro
- Michele Ramtin Ghazavi
Scene Margherita Palli
Costumi Ursula Patzak
Luci Pasquale Mari
Coreografia Daniela Schiavone
Maestro del Coro Alberto Malazzi
Orchestra e Coro del Teatro alla Scala
Teatro alla Scala, 18 ottobre 2022
Il ritorno di Fedora di Umberto Giordano alla Scala si è rivelato una mezza occasione mancata. Dopo le storiche edizioni del 1993 (Freni, Domingo e Carreras) e del 1956 (Callas, Corelli), per citare quelle di maggior rilievo, c’era molta attesa per questo nuovo allestimento firmato da Mario Martone, che si è rivelata purtroppo la meno riuscita tra le sue produzioni al Piermarini.
Per portare in scena questo delicatissimo repertorio bisogna crederci profondamente, senza cercare di ridicolizzarlo né tantomeno di nobilitarlo o intellettualizzarlo, cosa forse ancor peggiore. Questi titoli non hanno bisogno di essere “elevati” perché il loro valore risiede tutto nella musica. Fedora (anno 1898) poi è scrigno preziosissimo che contiene gemme musicali che si incastonano tra il Liberty e il Decadentismo (corrente artistica tra le più febbrili e fertili della Storia) con una potenza emotiva rara. Il libretto (come molti di queste opere) inclina al felleuiton? Benissimo; bisogna tuffarvicisi con abbandono e intelligenza, non cercare di opporre resistenza intrisa di superiorità alla materia. Così non funziona e tutto si raffredda, e, per chi vi assiste, irrita non poco.
Verdi, Mozart, Wagner parlano all’universale. Questi autori sono pienamente immersi nel loro tempo e nelle loro matrici letterarie e culturali. Cercare di estrapolarli da quel mondo – affascinante, affascinantissimo per chi sa coglierne l’essenza – è errore letale.
Per questo Fedora congelata all’epoca moderna non va, proprio non va e inciampa ad ogni angolo di libretto. Non vanno le parentesi oniriche e psicanalitiche, non vanno i continui richiami alla pittura di Magritte (perché poi? Dovessi scegliere qualche artista, io sceglierei Boldini..). Non vanno i risibili inserti coreografici del secondo atto (a cura di Daniela Schiavone). Martone di Giordano aveva già portato alla Scala un classico Chénier e una bellissima Cena delle beffe di cui aveva “riscritto” intelligentemente la drammaturgia (come fatto con il recente Rigoletto, peraltro) trasportandola dalla Firenze rinascimentale alla New York Italo mafiosa anni Trenta e tutto funzionava a meraviglia, con una grande regia. Qui invece il racconto scenico pareva privo di vita, inerte, assente. Senza contare che una grande scenografa come Margherita Palli ha denunciato un calo di ispirazione riciclando sue cose già viste un po’ qua e un po’ là, e i costumi di Ursula Patazak erano davvero poco ispirati, e, nel caso della protagonista, involgarivano non poco il personaggio.
Per fortuna, però, c’era la musica, e a tesserne la trama, sul podio dell’Ochestra scaligera, il bravo Marco Armiliato, al suo debutto come direttore di un’opera qui. Lui sì che in Fedora ci crede, e si è sentito. Di quest’opera – molto amata da Gustav Mahler, peraltro, che riteneva il suo magnifico Intermezzo un grande pezzo sinfonico – ha restituito colori, respiri, atmosfere, laceranti abbandoni e brucianti accensioni, senza mai perdere di vista il fil rouge del racconto teatral-drammatico sotteso alla partitura ed esaltandone l’abilissima orchestrazione e la pregevole scrittura.
Sul palcoscenico hanno dominato la voce e il carisma di Roberto Alagna (Loris), che tornava al Piermarini dopo il burrascoso addio di 16 anni fa durate una recita di Aida. E non poteva esserci rirtorno migliore, accolto da un entusiasmo al calor bianco. Alagna ha sempre voce bellisima, solare, squillate in acuto, dizione perfetta, fraseggio appassionato. E, soprattutto, “comunica”, coinvolge, commuove. Sentire l’ardore con cui intona “Amor ti vieta” o frasi come “Vedi, io piango… ma, se piango” riconciliano con il canto. Questa è una voce e questo è un artista, al di là di qualsiasi appunto.
Sonya Yoncheva era Fedora. Certo non mancano al soprano volume, sicurezza nel registro acuto, solidità in quello centrale. Ma nel grave pare soffiata aria calda per gonfiarlo oltre la naturale propensione, con l’effetto cosi di rendere greve l’emissione. Poi, a differenza del collega, non si avverte “verità” nella frase cantata, nella partecipazione interpretativa. Una Fedora, quindi di vocalità sicuramente importante, ma più abbozzata che sfaccettata.
Fresca, vivace, ben cantata la Olga Sukarev di Serena Gamberoni (privata però dell’arietta della bicicletta nel terzo atto “Se amor ti allena, se amor ti guida, gioia dei muscoli, dei nervi ebbrezza!”), disinvolta in scena e in sella al suo moderno biciclo.
Professionale George Petean come De Siriex, a cui faceva però difetto il disinvolto fascino boulevardier del suo ruolo.
Nella foltissima schiera dei comprimari si distinguevano Caterina Piva (Dimitri), Andrea Pellegrini (cui spetta il racconto del cocchiere Cirillo – qui si suppone autista – del primo atto), Carlo Bosi (Barone Rouvel). Tutti gli altri erano Cecilia Menegatti (del Coro di Voce Bianche dell’Accademia del Teatro), Gregory Bonfatti (Desirè), Gianfranco Montresor (Borov), Romano Dal Zovo (il truce, vocalmente anche sin troppo, Gretch), Costantino Finucci (Lorek), Devis Longo (Nicola), Michele Mauro (Sergio), Ratmin Ghazavi (Michele)
Teatro gremito alla seconda recita, pubblico festante, accoglienze entusiastiche per i due protagonisti, con punte per Alagna, e calorosissime per Armiliato.
Nicola Salmoiraghi