NOVARA: Tosca – Giacomo Puccini, 27 maggio 2022 a cura di Nicola Salmoiraghi
TOSCA
Musica di GIACOMO PUCCINI
Libretto di Giuseppe Giacosa e Luigi Illica
Direttore d’orchestra Fabrizio Maria Carminati
Regia Renato Bonajuto
Personaggi e Interpreti:
Tosca Charlotte-Anne Shipley
Cavaradossi Luciano Ganci
Scarpia Francesco Landolfi
Sagrestano e Sciarrone Stefano Marchisio
Angelotti/Un carceriere Graziano Dallavalle
Spoletta Saverio Pugliese
Scene Giovanni Gasparro e Danilo Coppola
Costumi Artemio Cabassi
Luci Ivan Pastrovicchio
Orchestra Filarmonica Italiana
Coro San Gregorio Magno
Maestro del Coro Mauro Trombetta
Coro delle voci bianche del Teatro Coccia
Maestri del Coro Paolo Beretta e Alberto Veggiotti
Coproduzione Fondazione Teatro Coccia e Ente Luglio Musicale Trapanese
Teatro Coccia, 27 maggio 2022
Dopo una lunga attesa dovuta all’emergenza Covid, è andata finalmente in scena al Teatro Coccia di Novara la nuova produzione di Tosca di Giacomo Puccini. Tre repliche esaurite a furor di popolo.
La regia dell’allestimento porta la firma di Renato Bonajuto, il che equivale ad una propria garanzia per chi ama la tradizione nel teatro d’opera ma non la “polvere” (che è altra cosa, e io personalmente non apprezzo); attenzione ad epoca e libretto dunque, ma occhio sempre rivolto ai particolari di una recitazione che deve sempre essere serrata e attuale e a un interagire tra i personaggi coinvolgente e credibile, con sottili sfumature psicologiche, questa la cifra stilistica di Bonajuto, eccellentemente realizzata; ecco così una Floria Tosca che a Dio sempre si riferisce e lui consegna anche le sue menzogne a Scarpia nonché lo stesso coltello sacrificale prima di sferrare i colpi mortali; lo stesso Scarpia disegnato come un ipocrita beghino, sempre pronto a inginocchiarsi e segnarsi prima di torturare, uccidere, abusare; bella l’idea di Cavaradossi che nel finale, quando Tosca gli parla di “uccisione simulata”, capisce subito che si tratta di una trappola del Barone e che lui morirà, fingendo allora di assecondare con dolce amarezza il sogno di libertà e felicità della sua amante; azzeccatissimo poi il cammeo di Sciarrone, che non è un truce sbirro ma un mellifluo e complice maggiordomo in polpe settecentesche a Palazzo Farnese, testimone e sodale del suo Capo e delle sue nefandezze. Insomma, per far bene la tradizione bisogna saperla fare, con un occhio all’oggi, e in questo Bonajuto è maestro.
Non certo secondario l’apporto delle scenografie che portano la doppia firma di Danilo Coppola e Giovanni Gasparro, il primo giovanissimo talento che definisce gli spazi con gusto, teatralità e armoniosa naturalezza, raccontando il dramma in scena, il secondo uno dei più quotati pittori attuali, che “rifà” anzi “reinventa” l’arte religiosa di Caravaggio e coevi con impattante e impressionante potenza, del tutto immersa in un fiammeggiante presente. Le accurate riproduzioni dei suoi quadri erano presenti in tutti e tre gli atti, e l’imponente quadreria di Palazzo Farnese era di particolare effetto. Ivan Pastrovicchio ha creato meticolosamente il gioco luci; voglio almeno citare la bella riuscita dell’ultimo atto, prima dell’esecuzione di Cavaradossi, quando il violaceo della notte trascolora nel rosa tenue dell’incerto albore e poi nel bagliore del primo sole, che, replicando l’ombra delle sbarre inclinate, inquadra la vittima contro il muro, poco prima della scarica dei fucili, come ineluttabilmente prigioniera del proprio destino. Molto belli e curati anche i costumi di Artemio Cabassi.
Fabrizio Maria Carminati, alla guida dell’Orchestra Filarmonica Italiana, assicura tenuta musicale, ottimo equilibrio con il palcoscenico, attenta ricerca di colori e sfumature, tra brucianti accensioni e distesi abbandoni lirici.
Charlotte-Anne Shipley, nei panni della protagonista, fa sfoggio di quella che si dice “una voce”, ampia, di ragguardevole volume e di autorevole impatto nel registro acuto (il “do” della “lama”, nel terzo atto, è stato al fulmicotone). A fronte di un timbro e di un colore che non sono forse particolarmente preziosi, il soprano inglese infonde comunque intensità e partecipe espressività ai suoi interventi, compreso il canonico e accorato “Vissi d’arte”.
Luciano Ganci ha fatto faville come Cavaradossi, ruolo che veste alla perfezione sia vocalmente che scenicamente; la voce è generosa, grande, squillante e aurea in acuto, e il tenore ne fa uso con la solarità e la prodiga espansione del tipico canto di scuola italiana, cha affascina certamente per il “cuore”, la ricchezza dei mezzi e la dovizia degli armonici. Il suo appassionato “E lucevan le stelle” ha avuto la più lunga ovazione della serata.
Francesco Landolfi, dopo un’entrata in scena un po’ sottotono, si è speso con grande volontà e professionismo nella definizione di questo personaggio tanto ma tanto complesso e ambiguo, con un risultato a conti fatti, se non indimenticabile, comunque attendibile.
Impagabile il Sagrestano una volta tanto giovane e non cachinnante del bravo Stefano Marchisio, che ha anche cesellato con insinuante malignità il suo particolare Sciarrone. Bene Graziano Dellavalle come Angelotti e Carceriere, così come Saverio Pugliese, efficace Spoletta. Una nota anche per il delicato intervento del Pastorello, ben cantato dal Giacomo D’Ambrosio.
Dal Coro San Gregorio Magno, preparato da Mauro Trombetta, dico solo che ci si attendeva, soprattutto in una pagina impegnativa come il “Te Deum”, qualcosa di più che un esercizio di buona volontà. Ma, per rimanere nel contesto, sicuramente l’indulgenza sarà arrivata… Buona la prova del Coro delle Voci bianche del Teatro Coccia istruito da Paolo Beretta e Alberto Veggiotti.
Successo caldissimo e prolungato al termine per tutti senza mezzi termini, tributato da un pubblico visibilmente contento di esserci. Eh sì, qualche volta capita ancora che Tosca abiti a Roma nel giugno 1800, occorrerà farsene una ragione… ogni produzione, ogni esperimento, ogni novità, hanno il luogo giusto dove essere proposti e fruttare. Bisogna avere l’intelligenza di capirlo. E poi anche questo è Teatro, piacevolissimo e ben fatto. Smettiamola di considerarla una colpa.
Nicola Salmoiraghi