PALERMO: Turandot, 24 gennaio 2019 – a cura di Maristella Panepinto
Turandot
Opera in tre atti
Libretto di Giuseppe Adami e Renato Simoni
Direttore Gabriele Ferro
Concept Fabio Cherstich e AES+F
Regia di Fabio Cherstich
Personaggi e Interpreti:
- Turandot: Tatiana Melnychenko, Astrik Khanamiryan
- Altoum e principe di Persia: Antonello Ceron
- Timur: Simon Orfila, Yuri Vocobiev
- Calaf: Brian Jadje, Carlo Ventre
- Liù: Valeria Sepe, Alexandra Grigolas
- Ping: Vincenzo Taormina, Federico Longhi
- Pang: Francesco Marsiglia
- Pong: Manuel Pierattelli
- Mandarino: Luciano Roberti
Scene, video e costumi di AES+F
Coach movimenti Alessio Maria Romano
Assistente alla regia Fabio Condemi
Orchestra, coro e coro voci bianche del teatro Massimo di Palermo
Cosa avrebbe pensato Giacomo Puccini della Turandot del teatro Massimo di Palermo? Domanda fuori dal tempo, che nasce d’emblèe dopo aver assistito al capolavoro del compositore lucchese, ad apertura della stagione 2019 del teatro d’opera palermitano.
Se il libretto, scritto da Giuseppe Adami e Renato Simoni, ha nell’incipit, l’ambientazione “a Pechino, nel mondo delle favole”, a Palermo, la Turandot è stata installata in un futuro fantasy, onirico e multidimensionale. Una regia audace, quella di Fabio Cherstich, che ha accostato la potenza della musica, a quella evocativa delle immagini. I tre atti sono stati accompagnati da complesse e magistrali installazioni al computer, proiettate su due schermi paralleli. Scenografie essenziali, ridotte a un paio di pedane mobili (ad accogliere il coro e i tre Ministri, Ping, Pang, Pong) hanno fatto posto alle proiezioni: coloratissime, tridimensionali, all’occorrenza anche psichedeliche. È un carosello di draghi, piovre che, in luogo dei tentacoli hanno teste e seni. Quindi giovani imberbi, ora mostrati in una bellezza primordiale, ora in un simbolico insieme di teste mozzate (sono le vittime di Turandot, coloro i quali avevano ardito di sciogliere i tre enigmi della principessa, al fine di diventarne sposi e poi di questa sono finiti vittime). Le proiezioni sono una metafora di una città del futuro, probabilmente della fine di questo secolo, densa di luci intermittenti, di colori fluo e di immagini che scorrono, anche arrivando a disturbare lo spettatore. Alla dimensione avveniristica, se ne alterna una più descrittiva, con corolle di fiori, che fanno da vassoio alle teste mozzate dei giovani pretendenti, stemperandone il dramma. È lì che l’installazione grafica rimanda ai videoclip più celebri della cantautrice islandese Bjork. Le immagini che, all’inizio stuzzicano, a un certo punto rischiano di deviare l’attenzione, soprattutto degli spettatori più appassionati, che, in taluni momenti, chiudono gli occhi, per godere, in maniera pura, nuda e cruda, dell’opera. Anche i costumi e i complementi di scena si allineano alla rilettura generale dell’opera: il Mandarino, nel proclamare l’editto, dà l’idea di leggerlo da un tablet. I tre Ministri, vestiti di rosso sgargiante da testa a piè, tengono in mano una valigetta , dove pare siano nascosti marchingegni e misteri. La stessa schiava Liù e il suo padrone, il principe tartaro Timur, entrano in scena con indosso una coperta termica dorata, che li accosta all’immagine dei salvataggi in mare dei migranti. In Calaf, in tenuta mimetica, si rivede il Rambo anni ’80, di cui Liù è la crocerossina (rimando semiotico forse un tantino scontato). Turandot (interpretata con il dovuto pathos vocale ed espressivo dal soprano armeno Astrik Kharamiryan) è il solo personaggio che mantiene un appeal “classico”. Nel primo atto emerge muta, vestita in un elegante abito di luci, con una pomposa aureola per corona. Turandot si presenta in tutta la sua inaccessibilità. Lei è per definizione “la pura”. Nell’atto finale eccola, elevata di un paio di metri dal resto della scena. Algida nel suo vestito che è bianco, lungo, elegante ma essenziale. Protagoniste sono le chiome bionde, sciolte fino ai piedi. Lei è “la pura”, lo si ribadisce. È sì crudele, ma “sol” perchè vuol vendicare la sua ava, finita alla mercè di uno straniero. Il coro ha abiti da proletariato ottocentesco e sventola, con tono amorfo e sottomesso, bandierine di fronte al sovrano, a cui augura millenni di vita. Gli autori di video, scene e costumi sono i creativi del collettivo AES+F (saliti sulle grandi ribalte dopo una fortunata performance alla biennale di Venezia del 2007). L’opera inizia con un autorevole Luciano Roberti, nelle vesti del Mandarino, che proclama l’editto della regina Turandot cuore di gelo. Ecco quindi comparire Liù, la dolce, la drammatica, non a caso vestita da crocerossina. È interpretata dal giovane soprano napoletano Valeria Sepe. Ha una timbrica carezzevole, che abbraccia negli acuti e che le vale un lunghissimo applauso nel finale. Con lei il principe tartaro Timur, ormai cieco e stanco. Lo interpreta Yuri Vorobiev, cogliendone a pieno la tristezza verso la vita e la misericordia verso la sua fedele schiava. Calaf è il tenore Carlo Ventre, fiero nella mimica e sicuro già dalle prime note. Per lui è un crescendo vocale, che piace al pubblico e che avrebbe toccato l’acme se solo Ventre avesse insistito un po’ di più nella tenuta di taluni acuti. Antonello Ceron è il il principe di Persia, che garantisce solidità al ruolo. I tre Ministri sono i protagonisti assoluti del secondo atto, quando cercano di dissuadere Calaf dall’ardimento. Preziosa la voce del baritono di Aosta Federico Longhi, nel ruolo di Ping. Un’interpretazione autorevole, che dà ragione a un ruolo da fondamentale comprimario.
Il maestro Gabriele Ferro dirige con garanzia l’orchestra del teatro Massimo. Bravi anche i componenti del coro di voci bianche, diretto da Salvatore Punturo.
Lunghi applausi a scena aperta suggellano il gradimento del pubblico. Il dramma pucciniano regala un finale dolce e amaro. La gelida Turandot che chiosa “amore” alla direzione di Calaf, il coro che inneggia maestoso, il pubblico che applaude e, al centro della scena, la povera Liù esanime, vittima di sé stessa, della crudeltà della bella principessa, ma ancora di più dello stesso amore che salva Turandot e Calaf. L’amore che presiede, che innalza, ma anche uccide.
Maristella Panepinto