PESARO: Rossini Opera Festival 2024 a cura di Nicola Salmoiraghi
Auditorium Scavolini – Vitifrigo Arena – Teatro Rossini, 19/20/21/22/23 agosto 2024
Ancora una volta il Rossini Opera Festival si conferma il più prestigioso Festival lirico estivo italiano, per certi versi l’unico davvero degno di questo nome per gli obiettivi artistici di alto livello quasi sempre centrati, come nell’edizione di quest’anno. Per Pesaro Capitale della cultura si sono fatte le cose in grande: quattro allestimenti d’opera (in luogo dei consueti tre) e una mega esecuzione in forma di concerto del Viaggio a Reims in occasione dei 40 anni della sua riscoperta proprio qui al ROF.
La rassegna si è inaugurata nel rinnovato Auditorium Scavolini in città (non comodissimo invero né come sedute, né come vedute, a meno non si sia in platea) con Bianca e Falliero, opera del 1819 (anno prolifico, quell’anno Rossini portò in scena anche La donna del lago ed Ermione, nonché la revisione di Mosè in Egitto).
Opera seria però con lieto fine, su inconsistente libretto di Felice Romani (la “non” vicenda drammatica si risolverebbe nel giro di dieci minuti) è costruita su oltre tre ore di musica che va dal bello al bellissimo e al sublime, al punto da rendere questo “strano oggetto” qualcosa che rapisce l’ascolto dalla prima all’ultima nota; tra le pagine indimenticabili l’aria di ingresso di Bianca, “Della rosa il bel vermiglio”, la grande scena di Falliero nel secondo atto, “Qual notte di squallore…Alma, ben mio, sì pura…Tu non sai qual colpo atroce”, il magnifico Quartetto (Bianca, Falliero, Contareno, Capellio) “Cielo il mio labbro inspira” e la Cavatina e rondò finale del soprano “Teco io resto… Deh! Respirar” mutuato dai “Tanti affetti” della “Donna del lago”.
Di questa complessa e fascinosa materia sonora, Roberto Abbado (alla guida dell’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai, mentre il Coro era quello del Teatro Ventidio Basso preparato da Giovanni Farina) si è reso eccellente interprete; giusta scelta di tempi, dinamiche appropriate, una bella paletta di colori, solido rapporto di equilibrio con il palcoscenico, convincente sia nelle pagine elegiache che in quelle più drammatiche.
Il nuovo allestimento era a cura, per la regia, di Jean-Louis Grida (scene e costumi di Rudy Sabounghi, questi ultimi decisamente punitivi, a parte l’abito nuziale, per il personaggio di Bianca e luci di Laurent Castaingt). Non c’è molto da dire, spettacolo visivamente accettabile e sostanzialmente inutile; la consueta trasposizione in epoca indefinibile del Novecento (anni Cinquanta? Sessanta? Più avanti?) con richiami alle guerre di quel secolo. E poi? Null’altro e nessuna idea registica veramente riconoscibile; gesti, situazioni, sviluppo drammatico assolutamente convenzionali.
Nel cast ha brillato la stella di Jessica Pratt (Bianca), soprano di suprema classe belcantistica. Voce limpida, corposa, di bello smalto, non è solo nel pirotecnico canto di bravura e nella perfetta e cristallina sciorinatura di agilità, sovracuti e variazioni che la signora Pratt si distingue, ma perché tutti questi assi nella manica si fanno veicolo espressivo ed interpretativo, sorretto da una consapevole e matura dimensione di artista, non solo di cantante.
Al suo fianco non ha sfigurato la brava Aya Wakizono, nel ruolo monstre di Falliero. Il mezzosoprano, con bello sfogo in acuto, ha piegato il morbido e prezioso colore del suo timbro, senza mai forzare un grave in natura non onnipotente, alle esigenze dell’ardua scrittura rossiniana, uscendone vincitrice. In particolare nei duetti con Bianca e nella sua scena del secondo atto ha fatto sfoggio rispettivamente di soavi sfumature e di un bel piglio drammatico, che, all’ultima replica cui ho assistito, ha conquistato il pubblico.
Sugli scudi la prova di un bravissimo Dmitry Korchak (Contareno) di sfolgorante impatto vocale e con un mordente e uno slancio nell’affrontare l’agilità di forza del canto rossiniano davvero ammirevoli, e non da meno quella del giovane basso Giorgi Manoshvili (Capellio) voce splendida e pastosa, emessa e gestita con già notevolissima maturità e padronanza tecnica; sicuramente lo ritroveremo in appuntamenti sempre più importanti.
Completavano validamente la locandina Nicolò Donini (nobile Doge Priuli), Carmen Buendía (Costanza), Claudio Zazzaro (Ufficiale/Usciere). Dangelo Díaz (Cancelliere). Maestro collaboratore al fortepiano Andrea Severi.
Il piatto forte del Festival era però il nuovo allestimento di Ermione alla Vitifrigo (ex Adriatic) Arena ai margini della città, che con quest’anno pare concluda il suo lungo e onorato servizio rossiniano (qui almeno si sentiva e vedeva bene ovunque si fosse seduti).
Opera sperimentale e modernissima del Pesarese, all’epoca assolutamente non compresa. Una Sinfonia inframezzata dagli interventi del Coro, la grande scena della protagonista a metà del secondo atto e non al termine, una progressione drammatica e incalzante, che anticipa di un secolo certe atmosfere da tragedia borghese e fratture psicanalitiche del Teatro del Novecento. Un corpo estraneo forse per il pubblico del 1819 ma sorprendentemente a noi vicino e comprensibilissimo. Ermione è senza mezzi termini un capolavoro, di una forza musicale e teatrale unica.
Di questo Michele Mariotti è stato senza discussione l’artefice e il demiurgo sul podio dell’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai (Coro anche in questo caso del Teatro Ventidio Basso, guidato da Giovanni Farina); ad ogni sua nuova prova sempre più si delinea e si scolpisce la statura gigantesca di questo direttore; Mariotti ci ha raccontato Ermione con la lacerante bellezza di un suono che diventa rapinoso viaggio musicale che si pone in realtà come una domanda, un interrogativo per la nostra anima. Può la musica, la musica di un autore, la musica di Rossini diventare un monito per la coscienza? Può, se la dirige Mariotti e la dirige così; non c’è sfumatura, squarcio di colore, bruciante urgere drammatico, inquieto brivido lirico che Mariotti non riesca a rendere un tassello indispensabile per comprendere appieno questa opera straordinaria e non ne faccia uno specchio in cui trovarci di fronte e chiederci: Ermione, Pirro, Oreste, Andromaca siamo noi? Rossini è certamente un dio, ma Michele Mariotti è il suo profeta.
Johannes Erath (regia), Heike Scheele (scene), Jorge Jara (costumi), Bibi Abel (Video) e Fabio Antoci (luci) hanno impaginato uno spettacolo bellissimo e ad alto tasso di teatralità. Qui la “contemporaneità” è gestita con un senso e in una cornice visiva sobria ma di grande suggestione e impatto. La sgarruppatissima corte del truzzo Pirro è riflesso di una società guardona e senza valori, contrapposta alla ferina inquietudine di Ermione e alla idealistica eleganza di Oreste. Su tutti sovraintende l’onnipresente Amore con i suoi dardi, in questa vicenda dove nessuno desidera la persona giusta: Oreste ama Ermione che ama però Pirro che vuole lasciarla perché ama Andromaca che non lo ama. Alla fine Amore sarà sconfitto e ucciso. Prevale l’odio, prevale la vendetta. Cosa c’è di più contemporaneo? Ogni movimento è curato alla perfezione e tutti recitano da padreterni (anche chi magari è conosciuto per le straordinarie doti vocali ma non esattamente per quelle attoriali). Grande spettacolo.
Su tutti ha dominato in scena la straripante personalità vocale e interpretativa di Anastasia Bartoli, travolgente Ermione. Voce estesissima, di enorme volume, tanto sicura in alto, quanto nel centro e nel grave, senza scalino alcuno. Gli acuti sono lame raggianti e feroci, la scrittura rossiniana è divorata con la zampata selvaggia di una belva ferita e desiderosa di sangue. Presente lei in scena, il carisma è talmente debordante che letteralmente la riempie. La sua lunga, grande scena del secondo atto, “Essa corre al trionfo!” è affrontata con forza vocale e scenica talmente sensazionale e definitiva, che il pubblico letteralmente ruggisce il trionfo, vero, che le decreta.
Juan Diego Florez cesella dal par suo il ruolo tenorile più “lirico” di Oreste. Belcantista sempre sublime, non mancano le raggianti puntature acute (anche non scritte, ma va benissimo così se sono belle a tal punto, lasciamo ai censori la voglia di storcere il naso) che l’hanno reso, tra le altre cose celebre. Canta con gusto, stile e accento giustissimi e ogni suo intervento è una lezione di grandissima vocalità.
Il più furente ed “eroico” Pirro è assegnato a Enea Scala, che a fronte di un timbro non esattamente baciato dagli dei, si mangia letteralmente il difficilissimo ruolo in un boccone e con che bravura! Salti di ottava, perigliosissime salite e discese, coloratura di forza sgranata con impetuosa, vorticosa baldanza, fraseggio scolpito ed autorevolissimo. Splendido vertice di un triangolo da storia dell’interpretazione rossiniana.
Un gradino sotto l’Andromaca professionale ma un tantino scolorita di Victoria Yarovaya. Nel restante cast note di merito per il Fenicio di Michael Mofidian e il Pilade di Antonio Mandrillo. Gli altri erano Martiniana Antonie (Cleone), Paola Leguizamón (Cefisa), Tianxuefei Sun (Attalo). Non si dimentichi il prezioso contributo del bravo maestro collaboratore responsabile Giulio Zappa.
Al Teatro Rossini scintille per la scoppiettante ripresa del frizzante allestimento di Moshe Leiser e Patrice Caurier (scene di Christian Fenouillat, costumi di Agostino Cavalca, luci di Christophe Forey) de L’equivoco stravagante, datato 2019, perfetto meccanismo ad orologeria di comicità e ritmo teatrale in una cornice visiva “tradizionale” e accattivante, filtrata dall’umorismo di un grottesco sempre giocato sul filo dell’intelligenza.
Che delizia questo Rossini targato 1811, che a causa del libretto licenzioso anzichenò, in cui abbondano i doppi sensi a sfondo sessuale, ebbe i suoi bei guai con la censura e fu ritirato dopo tre recite.
Di questo vaporoso gioco musicale, in cui c’è in nuce già tutto il grande Pesarese, Michele Spotti si è fatto nocchiero ideale alla guida della Filarmonica Gioachino Rossini (Coro del Teatro della Fortuna, preparato da Mirca Rosciani); musicalità vaporosa, senso scandito del ritmo, sorridente leggerezza, zampillante perlage di un fraseggio orchestrale sempre malizioso e galleggiante sulla freschezza di un’idea che si fa racconto musicale. Quanto talento in questa giovane bacchetta già lanciata verso prestigiosi traguardi!
Nel cast hanno dominato le voci maschili, a partire dall’irresistibile Nicola Alaimo che ha fatto di Gamberotto una vera e propria creazione, sia per l’impatto di una vocalità di straripante rigogliosità quanto per la simpaticissima verve scenica.
Da tenere d’occhio il giovane baritono Carles Pachon (Buralicchio) che oltre ad una notevole presenza scenica fa sfoggio di una voce di tutto rispetto, gestita tecnicamente con grade intelligenza e sicurezza. Bravo anche Pietro Adaini, luminoso e svettante nei panni dell’innamorato Ermanno. Nei suoi interventi convince anche Matteo Macchioni (il servo Frontino).
Meno a fuoco il mezzosoprano Maria Barakova (Ernestina) certamente divertente in scena ma un po’ vuota nei gravi e tirata in acuto. Adeguata Patricia Calvache (Rosalia). Maestro collaboratore responsabile e fortepiano Giorgio D’Alonzo, che ha contribuito alla riuscita della serata.
Si è tornati alla Vitifrigo Arena per la ripresa del (bel) Barbiere di Siviglia datato 2018 con regia, scene e costumi dell’intramontabile Pier Luigi Pizzi (regista collaboratore e luci di Massimo Gasparon). Questo è uno dei suoi spettacoli più riusciti degli ultimi anni; cornice visiva di grande eleganza (c’erano dubbi?) giocata su di un’abbagliante bianco e scene scorrevoli che si compongono con grande suggestione. Ma poi “c’è” una vera regia, con un bel lavoro sui personaggi e gags divertentissime (il Barbiere, oltre a essere un capolavoro, è divertente, non è un trattato di musicologia) che danzano sul filo di un incastro tra i vari personaggi di incontestabile maestria.
Sul podio dell’Orchestra Sinfonica G.Rossini, ecco la bacchetta di Lorenzo Passerini, che è stata pienamente all’altezza (belle scelte quest’anno il Festival con i direttori, con la stella cometa Mariotti che sopra tutti vola). Bel dialogo con il palcoscenico, adeguata scansione dei tempi, ritmo teatral-musicale sostenuto e turbinante, ma all’occorrenza, ecco trasparenze e giochi di merletto andaluso.
Tutti i protagonisti erano ciascuno fisicamente perfetto per i propri ruoli. Fascinosi sia Figaro che Almaviva, così come la sinuosa Rosina.
Ho trovato travolgente il Figaro sonorissimo e di bellissima pasta vocale del baritono Andrzej Filonczyk, altro artista su cui scommettere; Jack Swanson (Almaviva) ha voce delicata e pastellata da tenore di grazia d’antan, ma canta assai bene, con gusto per le variazioni e bel gioco di sfumature.
Affronta anche spericolata la parete di sesto grado di “Cessa di più resistere” e ne esce a testa alta, pattinando su e giù, con i suoi mezzi, tra agilità e colorature.
Maria Kataeva è una Rosina assai brava e di notevole personalità scenica, con qualche occasionale e veniale asperità in acuto.
Michele Pertusi è un artista immenso e tuttora cantante di altissimo livello. Il suo Don Basilio, scolpito e cesellato in ogni nota, è semplicemente un capolavoro, e non c’è nulla da aggiungere.
Carlo Lepore, impeccabile professionista e veterano di Rossini, ritrae Don Bartolo con indiscutibile levatura d’artista ma qua e là qualche velatura in acuto.
Patrizia Biccirè era Berta (“Il vecchiotto cerca moglie” diverte a prescindere), William Corrò era sia Fiorello che un Ufficiale e Armando De Ceccon impersonava Ambrogio.
Il Coro era quello del Teatro Ventidio Basso guidato da Giovanni Farina e molto bravo al fortepiano, nonché maestro collaboratore responsabile, Michele D’Elia.
E infine, tornati ad arrampicarci per le perigliose e ingrate gradinate dell’Auditorium Scavolini, ecco i festeggiamenti per i 40 anni pesaresi del Viaggio a Reims con un’esecuzionciona in forma di concerto.
L’Orchestra era quella Sinfonica Nazionale della Rai, sul podio Diego Matheuz. Una lettura pertinente, coinvolgente, apprezzabile. Sonorità a volte sin troppo esasperate che avrebbero dovuto essere tenute maggiormente sotto controllo.
Nel cast riunto per l’occasione parto subito dai vertici: Jessica Pratt ha fatto sfavillare tutte le sue arti di cantatrice sopraffina nella cascate di colorature e abbellimenti della Contessa di Folleville; Vasilisa Berzhanskaya è stata semplicemente magica come Corinna, questa voce, bella e peculiare a cavallo tra soprano e mezzo, si è fatta latrice di infinite meraviglie, dagli acuti smorzati in pianissimi di seta alle infinite trasparenze di timbro, al vellutato splendore del registro centro-grave e alla pastosa sicurezza e rotondità di quello acuto; Erwin Schrott (Don Profondo) ha fatto sfoggio di tutto il suo carisma vocale e scenico (anche in concerto) e ha impreziosito “Medaglie incomparabili” con la sua voce ampia, granitica e fascinosa; Dmitry Korchak (Libenskof) ha fatto esplodere le folgori del suo registro acuto e della sua autorevolissima vocalità; Nicola Alaimo una garanzia di intelligenza musicale, vocale e interpretativa come Trombonok; Vito Priante ottimo Don Alvaro e Jack Swanson (Belfiore) ha riconfermato la sua educata e agile vocalità; un gradino sotto le più sfocate Maria Barakova (ci vuole altro impatto per Melibea) e Karine Deshayes (professionale ma udibile solo a tratti); una delusione Michael Mofidian (il bravo Fenicio di Ermione) che in serata forse no si è perso nella difficile aria di Lord Sidney, inseguendo intonazione e precisione musicale; completavano la locandina Alejandro Baliñas (Don Prudenzio), Tianxuefei Sun (Don Luigino), Paola Leguizamón (Delia), Martiniana Antonie (Maddalena), Vittoriana De Amicis (Modestina), Jorge Juan Morata (Zefirino/Gelsomino), Nicolò Donini (Antonio).
Per tutte le produzioni grandissimo successo, spesso con i toni del trionfo, in particolare per Ermione.
Il ROF, ancora una volta, ha scommesso e ha vinto.
Nicola Salmoiraghi