ROMA: Andrea Chénier – Teatro dell’Opera 21 aprile 2017
Musica di Umberto Giordano
Direttore: Roberto Abbado, Pietro Rizzo (2 maggio)
Regia: Marco Bellocchio
Personaggi e Interpreti:
- Andrea Chénier: Gregory Kunde
- Carlo Gérard: Roberto Frontali
- Maddalena di Coigny: Maria José Siri
- Contessa di Coigny: Natascha Petrinsky
- La Mulatta Bersy: Anna Malavasi
- Roucher: Duccio Dal Monte
- Il Sanculotto Mathieu: Gevorg Hakobyan
- Madelon: Elena Zilio
- Un “Incredibile”: Luca Casalin
- il Romanziero Pietro Fléville – Fouquier Tinville: Graziano Dallavalle
- L’Abate: Andrea Giovannini
- il Maestro di Casa – Dumas – Schmidt: Timofei Baranov*
Dal progetto “Fabbrica” – Young Artist Program del Teatro dell’Opera di Roma
MAESTRO DEL CORO: Roberto Gabbiani
SCENE E LUCI: Gianni Carluccio
COSTUMI: Daria Calvelli
MOVIMENTI COREOGRAFICI: Massimiliano Volpini
Orchestra e Coro del Teatro dell’Opera di Roma
a cura di Giacomo Agosti
Finalmente ieri sera – dopo una esecuzione entusiasmante – ho capito perché si rappresenta così di rado l’opera più bella del mondo.
A differenza della Tosca – che evoca la Roma del papa re – , Andrea Chénier racconta dei fatti, veri e non, del periodo della rivoluzione francese.
In presenza di almeno uno degli stessi librettisti (Luigi Illica), e di un soggetto originale anziché fatto per la scena, la differenza si fa flagrante – perché se tutti conosciamo Roma, nessuno di noi ha vissuto la rivoluzione.
Illica si è divertito a scrivere un libretto antiquario, pieno di ironia e incentrato sulla difficoltà di trovare un posto per la poesia nel mondo contemporaneo.
E un Giordano giovane ha creato una partitura travolgente che interpreta tanto il dato storico quanto quello erotico : la passione dei personaggi (tutti, da chi dà la vita alla patria a chi si sublima nella fusione sotto la ghigliottina) è un principio dilagante che mi fa pensare solo alla potenza di Wedekind.
A differenza dal teatro tedesco, l’amore nello Chénier porta la vita .
Maddalena e Andrea si possono amare solo morendo ma sono felici di morire perché non c’è alcun principio mortifero nella musica.
Quindi lo Chénier è l’unica opera tragica con un lieto fine, il che spiega perché al termine del duetto conclusivo ci siamo spelati la mano dagli applausi ma siamo usciti col sorriso e non solo, col sollievo, dal teatro.
Per tenere una struttura così ricca, occorre una grande compagnia di canto che sappia interpretare, una grande orchestra con un direttore che sappia raccontare evocando e una grande regia che sappia far vedere attraverso alle cose. Non stilizzando – perché si farebbe spazzare via dalla musica – e non rinunciando a far capire la potenza attrattiva della poesia (cosa molto più difficile del richiamo dell’arte scenica di Tosca).
Lo spettacolo dell’opera di Roma ha raggiunto quasi tutti gli obiettivi.
Gregory Kunde fa sentire tutti i passaggi della sua voce e articola un improvviso meraviglioso, sostenuto come le arcate di una volta. Dialoga bene nel secondo atto e canta stupendamente ‘ora soave’ ; raggiunge l’apice in ‘fui soldato’, si risparmia inevitabilmente (per via della mancanza di intervallo) in ‘come un bel dì di maggio’ e spara tutti i razzi pirotecnici di ‘vicino a te s’acqueta’.
Al secondo posto metterei Roberto Frontali perchè ha fatto capire degli aspetti di Gerard che mi erano sempre sfuggiti : era bellissimo il monologo iniziale ma in ‘nemico della patria’ e soprattutto nel rapporto con Maddalena si intuiva, per la prima volta, una situazione più da Hans Sachs che da Scarpia, e cioè un padre mancato che si innamora della figlia.
Maria Jose Siri non ha tutta l’esperienza scenica richiesta da un ruolo difficile (l’innocenza) e ondeggia un po’ incerta. Ma il canto della ‘mamma morta’ fluiva perfetto (come nel finale) aiutato da un regista che facendo vedere poco, ha fatto vedere tanto.
È stata una piacevole sorpresa la regia di Bellocchio, che ha avuto il merito di annullarsi lasciando tutta la centralità ai cantanti. Alcuni passaggi luminosi erano un po’ ingenui, ma tutto era funzionale : c’era un aspetto retro’ nelle scene e nei costumi che illudeva in maniera soave e faceva affiorare con garbo il momento delle proiezioni finali che ho interpretato in senso autobiografico.
Il lavoro ha funzionato bene con tutti i comprimari, tra i quali segnalo Duccio Dal Monte (Roucher), Gevorg Habokyan (Mathieu) e Luca Casalin (l’incredibile).
Inevitabile che l’apparizione di Madelon cantata da Elena Zilio aprisse uno squarcio emotivo incontrollabile. Sono pochi minuti in cui si ascolta piangendo.
Roberto Abbado ha tenuto tutta la serata con un buon mestiere.
Onestamente, i colori di Giordano sono più ricchi, i passaggi più complessi – ma per una prima replica il materiale aveva una buona energia.
È difficile raccontare attraverso Giordano, e’ molto più difficile nello Chénier che nella Fedora, dove le tematiche sono di minor numero e il campo si restringe a due personaggi.
Solo Siberia riprende la ricchezza della prima opera.
Credo che Illica (e non Giordano) volesse che l’ultima immagine che lo spettatore si portasse via fosse la lettera di Robespierre a Gerard : non posso dare la grazia a un poeta, anche Platone li bandiva dalla Repubblica.
Non c’è regia al mondo che possa sottolineare questo dettaglio durante il duetto finale.
Forse si possono evitare scomodità, come il passaggio della Legray a fondo scena (che da libretto dovrebbe fare per salire sulla carretta della morte e bloccarsi alla esclamazione di Maddalena, ‘son io’).
Giacomo Agosti