TEATRO ALLA SCALA: Boris Godunov – Modest Petrovič Musorgskij, 13 dicembre 2022 a cura di Nicola Salmoiraghi
Boris Godunov
Modest Petrovič Musorgskij
Dramma musicale popolare in quattro parti (versione 1869)
Libretto di Modest Petrovič Musorgskij
Nuova Produzione Teatro alla Scala
Direttore Riccardo Chailly
Regia Kasper Holten
Personaggi e Interpreti:
- Boris Godunov Ildar Abdrazakov
- Fëdor Lilly Jørstad
- Ksenija Anna Denisova
- La nutrice di Ksenija Agnieszka Rehlis
- Vasilij Šujskij Norbert Ernst
- Ščelkalov Alexey Markov
- Pimen Ain Anger
- Grigorij Otrepev Dmitry Golovnin
- Varlaam Stanislav Trofimov
- Misail Alexander Kravets
- L’ostessa della locanda Maria Barakova
- Lo Jurodivyi Yaroslav Abaimov
- Guardia Oleg Budaratskiy
- Mitjucha, uomo del popolo Roman Astakhov
- Un boiaro di corte Vassily Solodkyy
Scene Es Devlin
Costumi Ida Marie Ellekilde
Luci Jonas Bøgh
Video Luke Halls
Orchestra e Coro del Teatro alla Scala
Coro di Voci Bianche dell’Accademia Teatro alla Scala
Teatro alla Scala, 13 dicembre 2022
Non poteva esservi inaugurazione migliore per la stagione 2022/23 del Teatro alla Scala che con questo Boris Godunov di Modest Musorgskij, spettacolo di altissimo livello sia teatrale che musicale.
Il direttore musicale del Teatro, Riccardo Chailly, ha scelto di eseguire, come ormai molto spesso si usa, il cosiddetto Ur-Boris, ovvero la versione primigenia di questo capolavoro già modernissimo per l’epoca, anno 1869. Nel 1872 Musorgskij vi tornò sopra, aggiungendo l’atto polacco (con Marina e Rangoni), il quadro della Foresta di Kromy, e con una diversa successione di scene. Negli anni poi l’opera ha conosciuto una serie di riorchestrazioni eccellenti, da quella celeberrima e in lussureggiante technicolor di Rimskij-Korsakov a quella più aderente al dettato originale di Shostakovich, quasi Boris avesse bisogno di essere lustrato, abbellito (e comunque queste rielaborazioni i loro meriti li hanno), per renderne più fruibile il volto cupo, pessimista, scabro, barbarico, dirompente nella sua allucinata essenzialità.
Il nuovo allestimento scaligero porta la forma di Kasper Holten (regia), Ed Devlin (scene, efficacissime), Ida Marie Ellekilde (costumi, belli), Jonas Bøgh (luci, assai suggestive) e Luke Halls (video). Un enorme pergamena si srotola sul palcoscenico (e in seguito saranno anche carte geografiche); è la cronaca di Pimen, che il potere costituito cerca sempre di censurare, cassare, edulcorare. I costumi richiamano epoche che vanno da quella storica di Boris (fine Cinquecento, inizio Seicento), l’Ottocento, l’epoca contemporanea, a simboleggiare l’eternità e ineluttabile cupezza dell’esercizio del comando, soprattutto se tirannico, portatore di angoscia, solitudine e sangue. Come un incubo costante per lo zar, lo spettro insanguinato del piccolo zarevič, Dmitrij, che da lui fatto assassinare, è costantemente presente in scena a ricordargli la sua colpa, fino a fargli apparire anche i suoi stessi figli coperti di sangue, in futuro. Molto bella e di grande potenza visiva la scena di fronte a San Basilio, con gli elementi del Coro di Voci Bianche dell’Accademia portati in scena come fossero dei cadaveri che a poco a poco si rianimano e con le loro invocazioni raddoppiano allucinazione su allucinazione per Boris, che alla fine, al culmine del suo delirio che precede la morte, verrà “aiutato” a trapassare da un colpo di pugnale, dal momento che l’establishment e i nuovi equilibri sono sempre pronti ad eliminare chi non serve più.
Spettacolo potente, ben raccontato, bello da vedere (il che è tutt’altro che scontato e tutt’altro che un demerito di questi tempi), curatissimo nella recitazione dei singoli e delle masse. Senza colpi di testa ad effetto, ci troviamo di fronte a un solidissimo teatro di matrice anglosassone, ci verrebbe da affermare, e infatti i richiami alla tradizione shakespeariano non mancano.
Sul podio della straordinaria Orchestra scaligera, un ispiratissimo Riccardo Chailly offre una delle sue più belle prove al Piermarini, di quelle che resteranno nella memoria. Un suono cupo, di vellutata, notturna pece si stende sulle sonorità inquiete, lacerate, struggenti e feroci di Musorgskij; un flusso continuo di musica e di coscienza che si fa narrazione teatrale, e poco sarebbe; di più, si fa narrazione di vita. Un arco sonoro teso e puntato come una freccia che scava nel mondo interiore di ciascuno di noi. Quando l’opera e la musica si fanno verità, “sono” verità, eh signori, non c’è nulla cha uguagli quest’arte meravigliosa. Il maestro Chailly ci ha messo davanti a questo specchio e l’ha fatto da gigante.
Un simile statura artistica aveva bisogno di altrettanto contraltare sul palcoscenico e Chailly l’ha trovato in Ildar Abdrazakov, immenso, indimenticabile, commovente Boris. Non si tratta solo della morbidezza e al contempo della forza di un organo vocale di grande bellezza per colore, timbro, ricchezza di chiaroscuri, pasta di preziosissimi armonici: il basso russo è Boris. Lo è per carisma d’interprete (ogni volta che è in scena, e nella seconda parte lo è costantemente, non hai occhi che per lui), incisività di accenti, varietà del fraseggio, forza di scavo attoriale. Non una frase, non un solo momento vanno sprecati. Ildar Abdrazakov ti inchioda alla poltrona e non resta che abbandonarsi a questo impressionante ritratto vocale e teatrale. Tutta la scena della morte, interpretata con una mezzavoce di devastante malinconia, un vero grido soffocato dell’anima è un capolavoro difficilmente ripetibile. Eccelso cantante, incommensurabile artista.
C’era comunque un terzo grandissimo protagonista, l’eccezionale Coro del Teatro alla Scala, istruito da Alberto Malazzi, in una prova di forza michelangiolesca, un arazzo sonoro, una tavolozza di colori da brivido, Splendidi, anche come attori. Non meno lo sono stati i bravissimi ragazzi del Coro di Voci Bianche dell’Accademia Teatro alla Scala, preparati al meglio da Bruno Casoni.
Il foltissimo cast della locandina è stato assemblato tenendo alto il livello della produzione; bene Ain Anger (Pimen) così come il serpentesco Šujskij di Norbert Ernst e l’inquietante Grigorij di Dmitry Golovin. Incisivo e di bell’aggetto vocale lo Šcelkalov di Alexey Markov, interessante l’argentea vocalità di Yaroslav Abaimov (L’Innocente), così come il timbro sopranile di Anna Denisova (Ksenija). Stanislav Trofimov si è ritagliato la sua fetta di successo con la canzone di Varlaam, mentre gli altri, tutti a fuoco, erano Lilly Jørstad (Fédor), Agnieska Rehlis (la Nutrice di Ksenija), Alexander Kravets (Misail), Maria Barakova (L’Ostessa), Oleg Budaratshkiy (Guardia), Roman Astakhov (Mitjucha), Vassily Solodkyy (Boiaro di corte).
Al termine successo accesissimo e prolungato per tutti, con punte entusiastiche per Chailly e trionfali per Ildar Abdrazakov.
Nicola Salmoiraghi