TEATRO ALLA SCALA: La Gioconda – Amilcare Ponchielli, 11 giugno 2022 a cura di Nicola Salmoiraghi
Amilcare Ponchielli
LA GIOCONDA
La Prima rappresentazione de La Gioconda del 7 giugno 2022 sarà trasmessa in diretta radiofonica su RAI Radio3
Direttore Frédéric Chaslin
Regia Davide Livermore
Personaggi e Interpreti:
- La Gioconda Saioa Hernández
- Laura Adorno Daniela Barcellona
- Alvise Badoèro Erwin Schrott
- La Cieca Anna Maria Chiuri
- Enzo Grimaldo Stefano La Colla
- Barnaba Roberto Frontali
- Zuàne Fabrizio Beggi
- Un cantore / Un pilota Giorgio Valerio
- Isèpo Francesco Pittari
- Un barnabotto Guillermo Esteban Bussolini
Scene Giò Forma
Costumi Mariana Fracasso
Luci Antonio Castro
Video Designer D-WOK
Coreografia Frédéric Olivieri
Maestro del Coro Alberto Malazzi
Nuova produzione Teatro alla Scala
Orchestra e Coro del Teatro alla Scala
Coro di Voci Bianche e Allievi della Scuola di Ballo dell’Accademia Teatro alla Scala
Teatro alla Scala, 11 giugno 2022
C’era una volta La Gioconda di Amilcare Ponchielli, titolo popolarissimo del grande repertorio e amatissimo dagli appassionati. E a ragione, aggiungerei; senza vergogna affermo che questo è un grande capolavoro musicale (per tacer del testo, delirantemente e sublimemente kitsch e furiosamente scapigliato di Arrigo Boito alias Tobia Gorrio, sublime gioiello a se stante, summa sfrenata di “tutto quello che avreste voluto sapere sul melodramma e non avete mai osato chiedere”) basato com’è su una sapientissima orchestrazione e su un continuo flusso melodico, innestato su una ricchissima tavolozza di colori, che contribuiscono a comporre un complesso arazzo musicale, financo eccessivo, che non può non conquistare qualsiasi ascoltatore che ami davvero il dramma in musica.
Ora questa fiammeggiante vicenda di amori, tradimenti, vendetta, veleni e pugnali, vero e proprio felleuiton ottocentesco trasferito su pentagramma, è diventata una “rara avis” di non frequente esecuzione (vuoi per la dispendiosità della messinscena, vuoi soprattutto per reperire le sei voci protagonistiche adeguate), tanto è vero che dal Teatro alla Scala mancava da 25 anni (e prima di quell’ultima edizione, da 45…). E’ tornata sulle scene del Permarini in un nuovo allestimento con la regia di Davide Livermore, le scene di Giò Forma, le immancabili – nelle produzioni di questo regista – proiezioni video di D-Wok, i costumi di Mariana Fracasso e le luci di Antonio Castro. Delle molteplici produzioni di Livermore viste alla Scala, questa è quella che mi ha convinto meno. L’idea di una Venezia ectoplasmatica, costantemente dark, sospesa in una dimensione “altra”, come vista attraverso gli occhi della Cieca (perdonatemi l’ossimoro, ma l’intenzione era questa, del resto “la cieca ci guarda, la cieca ci vede”, no?) alla lunga annoia un po’ (veramente d’effetto sola la scena conclusiva del secondo atto), tanto più che non si è notato un vero lavoro di regia e scavo drammatico su situazioni e personaggi. Il carisma di ciascuno – in maggior o minor misura – sopperiva a una mancanza autentica di guida teatrale (strano per Livermore, forse sempre troppo impegnato in troppe cose, e forse talvolta in vena di “mano sinistra”…); certo non bastavano le apparizioni “live” di angeli o madonne o i quattro sinistri Pulcinella scherani di Barnaba, in odor di Arancia meccanica Kubrick style a sollevare la situazione.
Decisamente sbagliato, a mio avviso, il finale; sulla note del preludio al quarto atto vediamo una figurante facente funzione di Gioconda pugnalarsi, e al termine la protagonista non lo farà, lasciando Barnaba rivolgere le sue ultime imprecazioni al corpo di questa, mentre lei, già fantasma, si ricongiunge a quello della madre Cieca, presente in scena per quasi tutto l’atto e a cui sempre Barnaba, come di fronte all’apparizione di uno spettro, lancia il suo terrorizzato e conclusivo “Ah!!!”. Trovata lambiccata e cervellotica che sottrae tensione e non ne aggiunge. I costumi pasticciati di Mariana Fracasso (Settecento per Coro e comparse, generico primo Nocevento – perché? – per i protagonisti) e video questa volta non particolarmente ispirati di D-Wok in tandem con le scene di Giò Forma non alzano le quotazioni dello spettacolo. Per fare un titolo come La Gioconda occorre abbandonarsi totalmente ai suoi codici espressivi e al suo gioco. Tentare, anche minimamente, simbolismi e intellettualismi, non è la via giusta.
Codici espressivi a cui è apparso estraneo anche il Direttore Frédéric Chaslin, alla guida dell’Orchestra scaligera. Mestiere sul podio, ma anche tanto grigiore, appiattimento di colori e dinamiche, lutulenza sonora. Ponchielli e la sua scrittura, che è tutt’altro che volgare e improvvisata e semmai sfodera un caleidoscopio di tinte vario e ricercatissimo, merita qualcuno che queste cose le abbia nel suo dna musicale, e non è il Maestro Chaslin.
Per fortuna il cast vocale era di notevole livello nella sua quasi totalità. Saioa Hernández, giunta in extremis a sostituire la rinunciataria Sonya Yoncheva, come già a Piacenza quattro anni fa ha ribadito di avere tutte le carte in regola per essere una grande Gioconda. Se proprio si vuole essere pignoli il pianissimo sull’“Enzo adorato! Ah! Come t’amo” è più un mezzoforte, però il resto c’era tutto, acuti di luminoso acciaio, gravi timbrati, accento rovente, voce ampia salda e sicura. Il massacrante tour de force del quarto atto, che spinge la vocalità del soprano dai più drammatici affondi ad estemporanei svolazzi di coloratura è stato espugnato dalla Hernández con soggiogante bravura, avendo modo anche di rifulgere con un’intensissima esecuzione di “Suicidio!”.
Sul podio con lei Erwin Schrott e Daniela Barcellona. Il basso uruguayano, carisma scenico elettrizzante, è in forma strepitosa. Voce bellissima, grande, di timbro pastoso, avvolgente, ha scolpito un magistrale Alvise Badoero, cantato magnificamente, con acuti al fulmicotone e gravi bronzei, e interpretato al medesimo livello. Dopo la sua aria “Ombre di mia prosapia” la sala è esplosa in una meritata acclamazione.
Bravissima anche Daniela Barcellona, come si è anticipato. Il mezzosoprano ha dato alla sua Laura Adorno il fascino di un colore mezzosopranile di velluto, dai riflessi ambrati, omogeneo in tutti i registri, che si sposa ad una vocalità autorevole e in cui ciascun suono è ben emesso; ogni suo intervento ha denotato la cantante e l’interprete di grande classe, convincente tanto per gli accenti accorati quanto per il fraseggio palpitante e veemente.
Roberto Frontali ha sfoderato tutte le carte di un artista di caratura superiore; non una frase, una parola, un accento del suo Barnaba, malvagio senza essere truculento, sono andati sprecati. Che l’organo vocale, dopo decenni di una luminosa carriera, possa essere non sempre un fulmine di guerra in tutti i passaggi è comprensibile, ma l’interprete ha convinto sempre, a dimostrazione di cosa siano tecnica, intelligenza, musicalità.
Onorevolissima la prova di Annamaria Chiuri come Cieca, da sempre seria professionista che sa gestire il suo mezzo vocale con avvedutezza, qui con gioco scaltrito nella gestione del registro grave e adeguata commozione di accenti
Resta da dire, tra i protagonisti, di Stefano La Colla (Enzo) a cui va l’onore delle armi per essere arrivato in corsa a sostituire Fabio Sartori. Certo, la voce è tanta e generosa, è innegabile, ma la linea di accenti ed espressività, come dire, non è pervenuta, è l’intonazione è spesso un optional più del lecito, senza contare che, almeno alla recita alla quale ho assistito, è parso un po’ perdersi durante la sua “Cielo e mar”, non ho ben capito se per qualche incomprensione con il podio, che non sempre del resto è parso un porto sicuro per gli interpreti.
Di ottimo livello la locandina dei comprimari: Fabrizio Beggi (Zùane), Francesco Pittari (Isèpo), Giorgio Valerio (Un cantore/Un pilota), Guillermo Esteban Bussolini (Un barnabotto).
Ancora una volta lodi massime al Coro del Teatro, preparato da Alberto Malazzi ma anche al Coro di Voci Bianche dell’Accademia Teatro alla Scala, diretto da Bruno Casoni.
I balletti, la “Furlana” del primo atto e la celeberrima “Danza delle Ore” del terzo, erano ben eseguiti dagli Allievi della Scuola di Ballo dell’Accademia del Teatro, su coreografie, invero non memorabili, del loro direttore, Frédéric Olivieri.
Teatro pieno – meno male, l’opera non valeva di meno – e successo incontrastato e calorosissimo per tutti, con punte per Hernández e Schrott.
Nicola Salmoiraghi