TEATRO ALLA SCALA: Les contes d’Hoffmann – Jacques Offenbach, 24 marzo 2023 a cura di Nicola Salmoiraghi
LES CONTES D’HOFFMANN
JACQUES OFFENBACH
Nuova produzione Teatro alla Scala
Direttore Frédéric Chaslin
Regia Davide Livermore
Personaggi e interpreti:
- Olympia Federica Guida
- Giulietta Francesca Di Sauro
- Antonia Eleonora Buratto
- Stella Greta Doveri
- Hoffmann Vittorio Grigolo
- Lindorf/Coppélius/Miracle/Dapertutto Luca Pisaroni
- Nicklausse/La Muse Marina Viotti
- Hermann/Schlémil Hugo Laporte
- Andrés/Cochenille/Frantz/Pitichinaccio François Piolino
- Luther/Crespel Alfonso Antoniozzi
- Spalanzani Yann Beuron
- Nathanaël Néstor Galván
Scene Giò Forma
Ombre Controluce Teatro d’Ombre
Costumi Gianluca Falaschi
Luci Antonio Castro
Orchestra e Coro del Teatro alla Scala
Maestro del Coro Alberto Malazzi
Teatro alla Scala 24 marzo 2023
Con la nuova produzione de Les Contes d’Hoffmann la Scala ha fatto centro, e Davide Livermore ha siglato una delle sue migliori regie d’opera in questo Teatro, probabilmente la migliore insieme a Tamerlano.
Ma andiamo con ordine. Assente dalle scene del Piermarini dal 2012, il capolavoro di Offenbach è stato presentato nell’“antica” versione Choudens con un pizzico di Oeser, e questo è molto dispiaciuto ai cultori della più recente revisione Kaye-Keck, invero interessantissima (e che soprattutto offre tutt’altro valore e peso al personaggio di Giulietta, altrimenti sacrificato rispetto alle altre due figure femminili). In realtà Hoffmann è un tale work in progress, e tali e tante sono le varianti, tra musica accertata dell’autore, aggiunte d’altri, brani spuri e non, che questo sublime laboratorio, quest’opera magica, ambigua e sfuggente, come la rappresenti funziona. Aria di Nicklausse, “Scintille diamant”, Settimino sì o no? Insomma, sono brani così musicalmente belli (c’erano tutti e tre) che francamente che importa se sono filologici o meno? Siano i benvenuti e applausi.
Il problema semmai stava (parzialmente) nel manico. E non perché Frédéric Chaslin abbia fatto particolari danni (come nella precedente Gioconda), ma semplicemente perché questo incredibile caleidoscopio di colori e atmosfere, meriterebbe ben altro che il semplice “mestiere” e magari un mano meno pesante quando occorrerebbe leggerezza e più incisiva quando occorrerebbero dramma e incalzante passione. E qui mi fermo, per non togliere spazio a chi lo merita davvero.
Si è detto che lo spettacolo portava la firma di Davide Livermore con scene e proiezioni, riuscitissime di Giò Forma, i bellissimi costumi anni Trenta di Gianluca Falaschi e il suggestivo, essenziale contributo della Compagnia Controluce per il Teatro d’ombra, il tutto raccontato dalle luci inquietamente allusive di Alberto Castro.
Sono molti i profondi livelli di lettura di questo spettacolo. Un’atmosfera da cabaret a metà tra una Pigalle dimenticata e la Repubblica dei Weimar intorno al 1931/32, alla vigilia dell’inferno dell’umanità. Una diffusa aria di mortifera, cinerea dissoluzione, tra il bianco, il grigio, il nero e l’argento, e sanguinosi lampi rossastri. In un continuo giuoco di specchi e riflessi, Hoffmann racconta e crede di raccontare, ama e crede di amare, tra immaginazione e realtà, tra il furore e la follia della creazione artistica che porta alla distruzione. Un doppio è spesso presente in scena e sembra “fisicamente” attratto dalle sue creature, dall’eterno femminino evocato e temuto, assai più del reale protagonista. Appare da una bara e una bara anche la gondola da cui rema nell’atto di Giulietta, con un’angosciosa distesa di ombrelli per il coro, in una laguna plumbea e spettrale. Ed ecco in quest’atto uno degli effetti visivi più suggestivi dello spettacolo: sulle note introduttive della Barcarola, mentre il soffitto della sala si tinge di verdeazzurro, un grande e fluttuante velo nerastro, mosso dai membri della Compagnia Controluce, ricopre tutta la platea; così la sensazione è, per chi è li seduto, di vedere tutto attraverso la lente liquida di un acquario e per chi guarda dall’alto quella dell’increspatura di una minacciosa marea
Molto bella e straniante anche l’idea di una Olympia “scomponibile” sempre alla ricerca dei suoi pezzi per riformarsi e avere un’identità, seppure di automa, e la tentazione di liberarsene per essere viva. Le quattro figure demoniache (spesso i personaggi appaiono e scompaiono da botole) sono accompagnate da un servitore muto di piccolissima statura (spero la definizione non offenda nessuno, ormai non si sa più come muoversi…) e in scena bravissimo, e citarlo in locandina non sarebbe stato male.
Uno spettacolo che sa di disfacimento, di eros negato, di io diviso e di sconfitta dell’uomo alla ricerca della verità, sua e dell’altro, o meglio dell’altra, dove ogni singolo ruolo, dal protagonista al più piccolo, è condotto e ritratto con mano da maestro. Questo, personalmente, è il tipo di teatro che vorrei sempre vedere.
Sul palcoscenico domina la personalità vocale e scenica di Vittorio Grigolo. E che non mi si venga a dire che questo straordinario tenore (alla mia recita ha fatto annunciare di essere indisposto ma fu “inutil precauzione” perché ha cantato da padreterno) è tutto natura e niente tecnica. Se non si possiede tecnica non si canta così, con questa capacità di sfumare, con una simile emissione a fior di labbro e con una tale paletta di nuances. Poi la voce è grande, bellissima, generosa, con acuti fulminanti che colmano la sala, l’interprete non si risparmia un attimo, l’attore, qui benissimo guidato, è carsimatico. Dice, fraseggia, colora la frase in ogni istante, i suoi momenti solistici e i duetti sono stati rapinosi, emozionanti. Magnifico Hoffmann, senza se e senza ma.
Luca Pisaroni (Lindorf/Coppélius/Docteur Miracle/Dapertutto) è altrettanto artista nel porgere la parola cantata, musicista intelligentissimo e di sicura presa attoriale. Solo qua e là, tra cui nella citata e temibilissima “Scintille diamant” il registro acuto è parso non sicurissimo e granitico. Ma la prova è quella comunque di un interprete di prim’ordine
Federica Guida ha pattinato con scioltezza sulle colorature e i sovracuti di Olympia, senza temere le vette virtuosistiche delle variazioni pirotecniche de “Les oiseaux dans la charmille”, oltretutto dimostrandosi efficacissima attrice.
Splendida Eleonora Buratto, dai mezzi vocali sontuosi, come Antonia. Ricchezza e bellezza di timbro, una cavata sonora da autentica fuoriclasse, acuti lucenti, pianissimi cesellati, intensità d’interprete. Superba, semplicemente.
Meno interessante e fascinosa la vocalità di Francesca Di Sauro, Giulietta un poco tagliente e sostanzialmente di colore non personalissimo, anche se la professionalità non si discute.
Anche Marina Viotti (Nicklausse/Musa) ha fatto annunciare un’indisposizione di cui non ha dato mostra in scena. Bravissima cantante, artista a tutto tondo è stata notevole in tutti i suoi interventi è si è ritagliata il meritato momento di successo personale con una palpitante esecuzione, sotto una pioggia di lustrini stile numero di music-hall, di “Vois, sous l’archet frémissant”,
Sugli scudi anche la prova di François Piolino nell’impersonare i quattro servitori (Andrés/Cochenille/Frantz/Pitichinaccio) qui immaginati “en travesti” ad aggiungere ambiguità ad ambiguità.
Preziosi i due cameo di Alfonso Antoniozzi, sia Luther che umanissimo Crespel, padre di Antonia. Il nutrito cast era adeguatamente completato da Yann Beuron (Spalanzani), Néstor Galván (Nathanaël) Hugo Laporte (Hermann/Schlémil), Greta Doveri (Stella) e Alberto Rota, artista del coro scaligero, la parte scenica “en travesti” della Madre di Antonia – ancora una pedina in questi incastri di identità – “doppiato” vocalmente da Francesca di Sauro, un escamotage così scenicamente riuscito da trarre in inganno (personalmente mi è accaduto) e da far da pensare, d’acchito, che si trattasse di un controtenore.
Il Coro della Scala, diretto da Alberto Malazzi è stato come sempre smagliante.
Teatro gremito, successo incondizionato, clamoroso per Vittorio Grigolo.
Nicola Salmoiraghi