TEATRO ALLA SCALA: Turandot – Giacomo Puccini, 4 luglio 2024 a cura di Nicola Salmoiraghi
TURANDOT
Musica di Giacomo Puccini
(completamento del terzo atto di Franco Alfano – Editore Casa Ricordi, Milano)
Dramma lirico in tre atti e cinque quadri
Libretto di Giuseppe Adami e Renato Simoni
Direttore MICHELE GAMBA
Regia DAVIDE LIVERMORE
Personaggi e Interpreti:
- La principessa Turandot Anna Netrebko
- L’imperatore Altoum Raúl Giménez
- Timur Vitalij Kowaljow
- Il Principe Ignoto (Calaf) Yusif Eyvazov
- Liù Rosa Feola
- Ping Sung-Hwan Damien Park
- Pang Chuan Wang
- Pong Jinxu Xiahou
- Un Mandarino Adriano Gramigni
- Prima ancella Silvia Spruzzola
- Seconda ancella Vittoria Vimercati
- Il principe di Persia Haiyang Guo
Scene ELEONORA PERONETTI, PAOLO GEP CUCCO, DAVIDE LIVERMORE
Costumi MARIANA FRACASSO
Luci ANTONIO CASTRO
Video D-WOK
Orchestra e Coro del Teatro alla Scala
Coro di Voci Bianche dell’Accademia Teatro alla Scala diretto da Marco De Gaspari
Nuova Produzione Teatro alla Scala
Teatro alla Scala, 4 luglio 2024
Turandot targata Livermore resterà certamente per anni nel repertorio del Teatro alla Scala. L’ultimo capolavoro pucciniano, nell’anno centenario della morte del compositore, ha siglato la pausa estiva prima della ripresa della stagione a settembre.
Come ha immaginato Davide Livermore il suo spettacolo, che al pubblico piace moltissimo, e a ragione? Innanzitutto è uno SPETTACOLO (belle le scene corporee dello stesso regista con Eleonora Peronetti e Paolo Gep Cucco, fantastici e ricchi i costumi di Marianna Fracasso, suggestive le luci di Antonio Castro ed evocativi come sempre i video di D-Wok); in un Oriente senza tempo, un po’ all’epoca delle favole, un po’ negli anni Trenta del Novecento, un po’ oggi e magari anche in un futuro distopico, si muove un popolo che è vittima ma carnefice alla stesso tempo; il linciaggio riservato al Principe di Persia sino a mandarlo letteralmente nudo al martirio è solo l’esempio di come dietro gli improvvisi slanci di pentimento caritatevole si nasconda spesso una fanatica crudeltà. I personaggi sono fragili, alla ricerca delle loro identità negate; Calaf cerca di riaffermare un nome perduto, Liù l’amore impossibile e un riscatto, Turandot una sessualità “violentata” (quella sì) dall’onnipresente incombenza, anche in scena, della fantasmatica e colpevolizzante ava Lo-u-Ling; sarà lei che Calaf bacerà nel finale per arrivare a sciogliere la Principessa di gelo; Ping, Pang e Pong sono le “voci di dentro” di Calaf e nel primo atto lui ne mima le parole mentre cantano; vorrebbe essere eroe ma al medesimo tempo si esorta a scappare lontano; durante gli enigmi sarà un misterioso bambino, che poi sparirà, a suggerirgli l’ultima risposta “Turandot”; chi è? Il suo inconscio?
Quello della Principessa che vuole essere espugnata? I piani interpretativi si sovrappongono, mentre in scena si compongono e scompongono intere sezioni di un quartiere orientale, con tanto di hotel equivoco “L’Amour” e su tutto domina una luna gigante, ora color sangue, ora trasparente, ora immagine di morte, ora rasserenante giardino; e un giardino scarlatto è l’appartamento reale di Turandot, che appare dall’alto come una visione, adagiata sulle foglie; e poi scalinate, ventagli, neve, pioggia di petali rossi, strascichi, simbolici destrieri scalpitanti, un bordello multisesso e multigusti, stile vecchia Shanghai, dove le tre maschere cantano la loro scena in apertura di secondo atto; sembra esserci di tutto, di troppo, eppure è tutto pensato, è tutto teatro, regia, ribollire di idee, e per gli occhi, dopo tanta indigestione di minimalismo, è davvero appagante il risultato.
Il momento toccante è quando sull’accordo di ottavino che chiude il corteo funebre di Liù, tutti noi accendiamo una candelina elettronica che ci è stata consegnate prima dell’inizio del terzo atto, mentre la luna si accende del volto del compositore con la scritta “Qui Giacomo Puccini morì” e dopo un minuto via con il finale Alfano, e meno male!
Ho sempre detestato le edizioni che si chiudono con la morte di Liù, le trovo profondamente sbagliate; un finale c’è, è stato scritto sulle tracce musicali lasciate da Puccini (e si sente) e perché non eseguirlo, dal momento che è validissimo. Certo, sarebbe stato più coraggioso, visto che alla Scala non si è mai fatto, proporre il “primo” finale di Alfano e non quello sforbiciato da Toscanini che abitualmente si esegue. Avendoli sentiti tutti (e personalmente liquidando l’inutile operazione Berio come un mero espediente commerciale per prolungare i diritti dell’opera), questa soluzione, più lunga e più perigliosa vocalmente per i due protagonisti è decisamente la migliore e la più aderente allo spirito musicale dell’opera.
Michele Gamba ha diretto benissimo l’Orchestra scaligera, percorrendo apertamente la via dell’Espressionismo novecentesco, il che è assolutamente legittimo; sonorità laminate e inquiete, a volte di deflagrante turgore; ma la complessa e fascinosissima tavolozza coloristica di Puccini c’era tutta e nel terzo atto, accompagnando i passi finali di Liù, il gioco di sospese trasparenze è stato decisamente coinvolgente e commovente.
Ho esaurito gli aggettivi per l’immensa Anna Netrebko; avevo già ascoltato la sua Turandot a Verona ma qui è stata un’altra cosa ancora. Come si faccia a conservare dopo una carriera trentennale una tale pienezza di mezzi, una freschezza vocale così sfacciata, senza la minima frattura tra i registri, e con il repertorio che il soprano affronta, ha del miracoloso. Ma dal momento che io ai miracoli non credo si tratta di una tecnica a prova di bomba nonché di un solidissimo impianto di vigore fisico personale. La sua è una Turandot originalissima: non manca nessun appuntamento con le folgoranti e possenti ascese acute del ruolo, ma il gioco di sfumature, accenti, intenzioni, pianissimi cesellati ad altezze impossibili, in ogni momento, dagli enigmi al finale, quando li avete mai sentiti? La sua Turandot è una donna, una creatura vera, e non la consueta virago della tradizione. Un suo filato può essere più temibile di un grido, in un ritratto musicale che ritengo modernissimo e di livello storico, per quanto attiene all’interpretazione di questo personaggio.
Dal momento che mi sono stancato di ribadire inutilmente che Yusif Eyvazov non possiede un timbro intinto nel giulebbe, preferisco sottolineare quanto canti bene in generale e di come abbia acuti che più della metà dei suoi colleghi gli possono tranquillamente invidiare; si permette il lusso della doppia puntatura esibita con souplesse in “tutta ardente d’amore” (fa bene, ce l’ha) e di una chiusura di “Nessun dorma” (il famigerato “Vincerò”) tenuta come se non ci fosse un domani, facendo esplodere l’appaluso del pubblico sulla musica che non si è fermata. Circo vocale? Benissimo, venghino signori venghino, qui ci si diverte alla grande.
Rosa Feola non ha probabilmente la polpa nel centro, quella di un soprano lirico pieno, che ci vorrebbe per Liù, ma è espressiva, musicalmente impeccabile, fraseggia con gusto e sensibilità e nel suo grande lungo momento del terzo atto gioca al meglio le sue carte ottenendo un ottimo risultato.
Solido e sonoro il Timur di Vitalij Kowaljow, un gradito cameo l’Altoum di Raúl Giménez, vivaci e apprezzabili i Ping, Pang e Pong di Sung-Hwan Damien Park, Chuan Wang e Jinxu Xiahou.
Completavano il cast Adriano Gramigni (Un Mandarino) Silvia Spruzzola e Vittoria Vimercati (Ancelle) e Haiyang Guo (la voce del Principe di Persia)
Una consueta meraviglia il Coro scaligero diretto da Alberto Malazzi e lodi al Coro di Voci Bianche dell’Accademia della Scala guidato da Marco De Gasperi.
Teatro esaurito ed entusiasmo al calor bianco, con acclamazioni per Anna Netrebko.
Nicola Salmoiraghi