TEATRO ALLA SCALA: Un ballo in maschera – Giuseppe Verdi, 10 e 19 maggio 2022 a cura di Nicola Salmoiraghi
UN BALLO IN MASCHERA
Giuseppe Verdi
Melodramma in 3 atti
Edizione critica della partitura edita da Chicago University Press e Casa Ricordi, Milano
a cura di I. Narici
Direttore Nicola Luisotti (4, 7, 10, 12, 14 mag.) / Giampaolo Bisanti (19, 22 mag.)
Regia, scene e costumi Marco Arturo Marelli
Personaggi e Interpreti:
- Riccardo Francesco Meli
- Renato Luca Salsi (4, 7, 10, 12, 14 mag.), Ludovic Tézier (19, 22 mag.)
- Amelia Sondra Radvanovsky
- Ulrica Yulia Matochkina (4, 7, 10, 12, 14 mag.) / Okka von der Damerau (19 e 22 mag.)
- Oscar Federica Guida
- Silvano Liviu Holender
- Samuel Sorin Coliban
- Tom Jongmin Park
- Un giudice Costantino Finucci
- Un servo d’Amelia Paride Cataldo
Luci Marco Filibeck
Maestro del Coro Alberto Malazzi
Nuova produzione Teatro alla Scala
Orchestra e Coro del Teatro alla Scala
Teatro alla Scala, 10/19 maggio 2022
Dopo un’assenza di nove anni, è tornato sul palcoscenico della Scala Un ballo in maschera di Giuseppe Verdi. Allora fu la volta del contestato e discusso allestimento di Damiano Michieletto, attaccato dalle vergini vestali (o almeno vestali…) del culto del sacro tempio (la sacralità è solo delle chiese, per chi ci crede, in ogni caso…). Verrebbe voglia di scrivere, davanti al nuovo allestimento di Marco Arturo Marelli (regia, scene e costumi), perché non è stato tenuto il precedente? Almeno una coerente idea interpretativa – piacesse o meno – c’era.
Qui invece regna il vuoto pneumatico, una tradizione che non riesce a essere tradizione, un astratto che non riesce a essere astratto, ma tutto che riesce, di contro, ad essere perfettamente inutile se non fastidioso. Ambientato in un “non” luogo, in un “non” palazzo in fuga prospettica claustrofobica, tra quinte semoventi (ma, per favore, nell’ultima scena la sala della Scala replicata anche no, eh… citofonare Carsen Robert, per chiedere come si fa, meglio e con un senso) e in un generico Settecento, tra finti corvacci neri dall’effetto ridicolo sparsi qua e là, l’antro di Ulrica che pare un fagiolone gigante, Riccardo che gioca con un teatrino che replica la scena (a significare che i personaggi sono marionette in preda al destino? Va bene, tiriamo avanti…) la morte (sì, sì, proprio quella classica, con mantellone nero e maschera a teschio) che appare in continuazione come monito, all’inizio, nell’orrido campo (effetto comico involontario) e nel finale suonando il violino (sic!) prima di accogliere il Conte moribondo tra le sue ossute braccia. Il fatto è che tutto è veramente bruttarello da vedere e mal gestito (anzi non gestito, il che è peggio) dal punto di vista teatrale; gli interpreti danno l’impressione di fare ognuno quello che sa in assenza di una guida davvero autorevole.
Un discorso a parte meritano le luci, che purtroppo non aiutano, di Marco Filibeck. Più o meno giocate su un monocorde chiarore perenne, non “raccontano” le atmosfere di questo capolavoro. Ma è mai possibile che nella scena dell’orrido campo ci sia un bagliore che nemmeno in Piazza Duomo a Milano a mezzogiorno nel pieno degli acquisti natalizi?? Mistero addio, terrore addio… meno male che ci pensa Amelia a ristabilire gli equilibri drammatici, strappandosi da sola il velo per farsi riconoscere da tutti, marito in primis (ideona, vero?).
Basta così, ma vorrei aprire una parentesi estremamente seria sui diversi cambi “politically correct” apportati al libretto per questa edizione – così viene indicato nel programma di sala – e che già condanno in partenza; un’opera d’arte va contestualizzata nell’epoca in cui ha visto la luce e accettata per quello che è. Passi aver tolti i riferimenti all’America presenti nel testo (ma perché poi?? Per adattarsi all’astratta universalità della “concezione” registica? Sciocchezze…) anche se così va a farsi benedire il bell’effetto finale, tutto verdiano dell’ “Addio diletta “Am… – e tutti pensano, ora Riccardo morente dice “Amelia” e invece, galantuomo fino in fondo… – …merica”. Qui invece dice proprio “Amelia”, falsando intenzione drammaturgica e concezione del personaggio.
Poi – poteva essere diversamente? – “Ulrica, dell’immondo sangue dei negri” diventa “Ulrica, del demonio maga servile”. Ora, posso capire che alle moderne sensibilissime orecchie la prima frase possa risultare sgradevole, ma lo vogliamo capire che l’opera è del 1859 e la realtà, anche lessicale, era diversa? E che Verdi Giuseppe non era un membro del Ku Klux Klan e mettendo quelle parole in bocca al Giudice che persegue l’indovina magari ne voleva sottolineare lo spocchioso e intollerabile razzismo (e questo spetterebbe alla regia evidenziarlo…)?
Nel confronto con Amelia del terzo atto Renato dovrebbe apostrofare la donna non con “Sangue vuolsi e tu morrai” ma con “Rea ti festi e tu morrai”. Perché?? Il sangue offre un’immagine troppo violenta? E allora perché Riccardo alla fine non viene ucciso con un buffetto sulle guance?? Eh, troppe morti violente nell’opera, non va bene… revisionismo, revisionismo!! Fortunatamente sia Luca Salsi che Ludovic Tézier, interpreti di Renato, hanno invece cantato le parole originali del libretto, e, da chiunque sia venuta la decisione, è stata, almeno questa, cosa buona e giusta! Ma stiamo scherzando?
Attenzione, perché questo moralismo di ritorno e questa ossessione del politicamente corretto stanno diventando davvero pericolosi per la libera espressione. Tra un po’, non molto, l’intero corpus teatrale, o quasi, di Shakespeare non potrà essere più rappresentato se andiamo avanti di questo passo, o, per fare un esempio diverso, visto che in occasione del centenario della nascita ne sto vedendo al cinema l’intera filmografia, nessuna pellicola di Pier Paolo Pasolini oggi verrebbe non dico proiettata ma neppure prodotta. Ripeto, attenzione, e, francamente, basta!
Questo Ballo era nato per essere diretto da Riccardo Chailly. Indisposto, il Maestro Chailly ha ceduto la bacchetta a Nicola Luisotti e per le ultime due recite a Giampaolo Bisanti.
Chi salva una situazione è sempre benemerito, d’accordo, ma quest’opera straordinaria, nel suo incredibile delicatissimo equilibrio fra tinte brillanti e tragedia, richiederebbe altre sfumature, più ricercati fraseggi orchestrali, meno clangore epidermico, meno squadrata pesantezza. E qui mi fermo. La professionalità e il mestiere, ci mancherebbe, sono stati garantiti dal Maestro Luisotti alla guida dell’Orchestra scaligera, ma, e dispiace come dispiace di fronte alle occasioni parzialmente mancate, si è riscontrato poco altro.
Assai più efficace la concertazione di Giampaolo Bisanti, morbida, narrativa, distesa nei momenti lirici, incalzante e trascinante quando doveva esserlo. Decisamente qui ho ritrovato i colori del Ballo.
Nel cast ha dominato la prova superlativa di Francesco Meli, voce tenorile tra le più belle di oggi. Non c’è solo edonismo sonoro, però, nel suo Riccardo. Ci sono intenzioni, fraseggio ricco di colori e accenti, pregevoli mezzevoci, scavo della parola, dizione perfetta, luminose salite in acuto, generosa solarità del canto. Un piacere vero ascoltarlo, in un ruolo che è “suo” quant’altri mai. Qualche scivolata vocale nel terzo atto, dovuta ad una serata di non buona forma come può capitare a tutti, nella seconda recita in cui l’ho ascoltato, non inficia un’interpretazione maiuscola.
Sondra Radvanosvsky (che era anche l’Amelia di nove anni fa) impressiona per l’ampiezza di un volume che dilaga per la sala del Piermarini, la tecnica solidissima, che le permette pianissimi d’effetto e l’indubbia personalità e presenza vocale, di grande livello. Il timbro non è privilegiato, si sa, con un caratteristico vibrato e acuti di penetrante metallo (ma sciabolanti come folgori, occorre dirlo), e talvolta la cantante sfoggia un’“espressività” troppo caricata, ma sicuramente ci troviamo di fronte a una delle maggiori interpreti sopranili attuali e qui l’ha riconfermato, ad esempio con una resa intensissima di “Morrò ma prima in grazia”, ancora di più al secondo ascolto, dove peraltro sono però parsi anche amplificati certi eccessivi stridori in alto.
Luca Salsi (Renato) ha riaffermato di essere baritono affidabilissimo, di bel timbro brunito dovizioso di sfumature e ottima resa della parola cantata, disegnando vocalmente un incisivo Renato.
Assolutamente strepitoso il Renato di Ludovic Tézier, in forma splendida; il baritono francese ha fatto sfoggio di colore bronzeo, fraseggio scolpito e vario, una colonna di suono omogenea, di bellissima pasta, dal grave all’acuto, dove la voce, già molto ampia, pare addirittura raddoppiare gli armonici. Ogni suo intervento è stato un esempio di solidità tecnica e autorevolezza interpretativa, raggiungendo il culmine con una travolgente esecuzione di “Eri tu che macchiavi quell’anima”, in un trascolorare di intenzioni e accenti, tra emozione, rimpianto e rabbia pronta ad esplodere. Un esempio altissimo di ciò che si dice canto “verdiano”, o molto più semplicemente, di canto “tout court”.
Yulia Matichkina, se non indimenticabile, è stata una convincente Ulrica; più problematica e discontinua mi è parsa invece la resa di Okka von der Damerau, voce mezzosopranile che sicuramente possiede “corpo” ma non “metodo”.
Federica Guida, come Oscar, ha fatto sfoggio di voce piuttosto piccola ma ben proiettata, cantando assai bene i suoi interventi e “pattinando” con disinvoltura sulle agilità del ruolo. Come “ragazzo” era per nulla credibile scenicamente ma credo dipendesse in gran parte dalla “non” impostazione registica.
Completavano onorevolmente il cast Sorin Coliban e Jongmin Park (Samuel e Tom), Costantino Finucci (Un giudice) Paride Cataldo (Un servo d’Amelia) e, un po’ meno onorevolmente, Liviu Holender (Silvano).
Del Coro del Piermarini diretto da Alberto Malazzi occorre ribadire ogni volta che è eccellente? Occorre perché lo merita.
Il pubblico, che colmava la sala ad entrambe le recite cui ho assistito, ha generalmente e ampiamente apprezzato. Se isolati dissensi ci sono stati fanno parte del gioco e della relativa ansia di farsi notare.
Nicola Salmoiraghi