VENEZIA: Un ballo in maschera, 26 novembre 2017
opera in tre atti di Giuseppe Verdi
su libretto di Antonio Somma (Udine, 1809 — Venezia, 1864), a sua volta tratto da libretto di Eugène Scribe Gustave III, ou Le Bal masqué, per Daniel Auber
Direttore: Myung-Whun Chung
Regia: Gianmaria Aliverta
Personaggi e Interpreti:
- Riccardo: Francesco Meli
- Amelia: Kristin Lewis
- Renato: Vladimir Stoyanov
- Oscar: Serena Gamberoni
- Silvano, un marinaio: William Corrò
- Ulrica, indovina: Silvia Beltrami
- Samuel: Simon Lim
- Tom: Mattia Denti
- Un giudice: Emanuele Giannino
- Un servo d’Amelia: Roberto Menegazzo (24, 29/11 – 3/12), Dionigi D’Ostuni (26/11 – 1712)
Scene: Massimo Checchetto
Costumi: Carlos Tieppo
Luci: Fabio Barettin
Movimenti coreografici: Barbara Pessina
Orchestra e Coro del Teatro La Fenice
maestro del Coro: Claudio Marino MorettiCoro di voci bianche
maestro del Coro: Diana D’Alessio
nuovo allestimento Fondazione Teatro La Fenice
a cura di Paolo T. Fiume
Grandi nomi “in ballo”, è proprio il caso di dirlo, per la produzione inaugurale della stagione 2017-18 del Gran Teatro La Fenice. Il titolo, mancante nei cartelloni veneziani dal 1999, è Un ballo in maschera di Giuseppe Verdi, opera dalla lunga gestazione a causa dei ripetuti interventi della censura prima borbonica e in seguito romana, che poté vedere la luce della prima rappresentazione solo nel 1859, dopo più di quattro anni dall’inizio della collaborazione con il librettista udinese Antonio Somma.
Non sorprende che la scelta di regia di Gianmaria Aliverta, con le scene di Massimo Checchetto, si sia dunque concentrata sui risvolti più politici e sociali del libretto, che dall’originale ambientazione seicentesca sposta la vicenda nell’Ottocento schiavista americano. Il giovane regista sceglie in verità una strada piuttosto tradizionale, ambientando il primo quadro con una sala del consiglio divisa tra un emiciclo di banchi sulla destra e un non particolarmente originale scalone sulla sinistra. Tutto lo spettacolo prosegue sul segno di una rassicurante ordinarietà, con qualche punto di maggiore brillantezza nell’antro di Ulrica, dove gli specchi bruniti che riempiono la scena diventano interessante elemento di interazione tra coro e solisti. Parimenti interessante il quadro finale, dominato dal capo troneggiante di una Statua della Libertà che diventa teatro dell’omicidio (con arma da fuoco) di Riccardo, il quale tuttavia riesce inspiegabilmente, dopo essere stato ferito a morte, a scendere dal luogo sopraelevato del suo delitto e a percorrere l’intera scena in piedi prima di accasciarsi nelle ultimissime battute.
Particolarmente bizzarro l’intervento di comparse a raffigurare degli schiavi di colore: se il riferimento ai “negri” (conservato) del libretto poteva far sperare in uno spunto registico originale ed intrigante, il risultato è francamente inadeguato. Dall’uscita da sotto il palcoscenico, quasi ab inferis, di una fila di schiavi apparentemente in preda a possessione nel quadro di Ulrica, all’assassinio di uno schiavo in fuga nel bel mezzo dell’orrido campo, ogni scelta sembra compiuta senza preoccuparsi di qualsiasi sorta di riferimento testuale al libretto o coerenza con l’azione drammaturgica. Le luci di Fabio Barettin contribuiscono a donare allo spettacolo l’impressione di una sgradevole staticità. Belli invece, originali e curatissimi, i costumi di Carlos Tieppo, con una particolare nota di merito per quelli felicissimi del coro del “ballo”, con abiti blu profondo e maschere argentate che rimandano alla corona raggiante della Statua della Libertà.
Ben altro spessore per fortuna ha portato in scena il comparto musicale, a cominciare dalla fenomenale bacchetta di Myung-Whun Chung. Il celebre direttore sudcoreano ha offerto una lettura dell’opera inappuntabile, emozionante, sempre ordinata ma mai banale, ricchissima di attenzioni alle meraviglie nascoste dell’orchestrazione verdiana. È sufficiente pensare alla cura con cui viene trattata la stretta dell’introduzione, marcando con affascinante equilibrio le differenze di struttura compositiva della partitura tra il primo intervento del coro (Teco sarem di subito…), ricca di interventi in controtempo risolti con accuratezza maniacale, e l’ultima ripresa, dove l’assieme è di una precisione davvero mirabile.
Un vero “fenomeno”; come ha gridato un ascoltatore al termine della romanza dell’ultimo atto, Francesco Meli nei panni del Conte Riccardo. Il ruolo appare maturato e arricchito rispetto al risultato già eccellente di Parma nel 2011. Ogni brano è cesellato con un timbro elegante, nobile e fiero. La rivedrà nell’estasi e la già citata romanza del terzo atto sono momenti veramente sublimi. La vocalità ordinata e precisa appare del tutto adeguata al ruolo, che si muove spesso con soluzioni brillanti negli acuti ma non risparmia di salti impervi nel registro grave (Di’ tu se fedele…). Il tutto dona un’impressione di leggerezza ed abilità che, unite alla grande arte scenica, rendono veramente giustizia alla globalità melodrammatica del personaggio. Volendo per forza trovare dei difetti, si potrebbe dire che spesso gli acuti presi da sotto gettano una fugace ombra di ineleganza, ma sembra negli ultimi anni essere una peculiarità di Meli che non influisce apparentemente sull’intonazione, sempre precisa, e sull’agilità anche negli acuti più ardui, che patiscono soltanto di una messa di voce in alcune occasioni leggermente prolungata.
Insufficiente l’Amelia di Kristin Lewis. Costantemente imprecisa nelle agilità, sempre in difficoltà negli acuti, con la voce che si sposta pericolosamente indietro e snatura ogni impeto drammatico del complesso carattere della sposa di Renato. Il timbro sarebbe bellissimo e affascinante, dalla bella e grande apertura nel registro grave, se non fosse del tutto disomogeneo nell’estensione e per nulla al servizio della parola, che risulta in difficoltà anche per una pronuncia spesso difettosa.
Ottimo invece il Renato del bulgaro Vladimir Stoyanov, sempre efficace e puntuale, più volte applaudito a scena aperta anche grazie a un timbro veramente generoso e mascolino. Un lieve eccesso di “spinta” nel registro acuto in certe circostanze non altera una prestazione globalmente del tutto positiva.
Parimenti eccezionale Serena Gamberoni che si impone evidentemente come Oscar di riferimento, brillante, sempre precisissima e naturale, perfettamente nel ruolo, penalizzato purtroppo da scelte registiche ogni tanto un po’ banali.
Molto buona anche l’Ulrica di Silvia Beltrami, che necessita solo di qualche istante di riscaldamento prima di sfoggiare una vocalità invidiabile, molto omogenea nell’intera estensione, dal volume non esuberante ma a tutto vantaggio di una dizione perfetta e di una grande padronanza delle sfumature. Bello e centrato per il ruolo il suo timbro, composto, austero e per nulla parco di emozione e pathos nei momenti di maggiore tensione drammatica.
Di prim’ordine il Silvano di William Corrò, dal timbro generoso, virile e pieno, che fa sperare di poterlo sentire in futuro in qualche ruolo protagonista. Alla pari la bella prestazione di Simon Lim in Samuel. Un po’ meno, ma comunque corretto, il Tom di Mattia Denti.
Validissimo anche il Giudice di Emanuele Giannino, per quanto anch’egli penalizzato da una regia caricaturale.
Dell’orchestra si è già detta l’ottima esecuzione. Altrettanto si può dire del coro, ricchissimo, pieno e trascinante, preparato con evidente cura dal maestro Claudio Marino Moretti.
Paolo T. Fiume