VERONA: Amleto – Franco Faccio, 29 ottobre 2023 a cura di Silvia Campana
AMLETO
Tragedia lirica in quattro atti di Franco Faccio
Libretto Arrigo Boito
Direttore Giuseppe Grazioli
Regia Paolo Valerio
Personaggi e Interpreti:
- Amleto Angelo Villari
- Claudio Damiano Salerno
- Polonio Francesco Leone
- Orazio Alessandro Abis
- Marcello Davide Procaccini
- Laerte Saverio Fiore
- Ofelia Gilda Fiume
- Geltrud Marta Torbidoni
- Lo spettro Abramo Rosalen
- Un araldo Enrico Zara
- il Re di Gonzaga Francesco Pittari
- La Regina Marianna Mappa
- Luciano Nicolò Rigano
- Un Sacerdote Maurizio Pantò
- Primo Becchino Valentino Perera
Scene e projection design Ezio Antonelli
Costumi Silvia Bonetti
Luci Claudio Schmid
Movimenti mimici Daniela Schiavone
Teatro Filarmonico, 29 ottobre 2023
Certo doveva essere un potente sberleffo, irrisorio quanto polemico nei confronti del paludato ambiente dei salotti borghesi depositari della cultura, questo Amleto frutto della grande amicizia ed ambizione artistica di due importanti figure venete protagoniste della Scapigliatura italiana e ben ha fatto la Fondazione Arena di Verona a decidere di ripresentarlo, per la prima volta dopo 152 anni in Italia, proprio sul palcoscenico della città natale del suo compositore.
Progetto tormentato e tormentoso (il termine suona possente dalle pagine dell’incandescente testo boitiano) questo titolo, con libretto di Arrigo Boito e musica di Franco Faccio, entrambi giovanissimi alfieri del nuovo e sulfureo movimento artistico, era da tempo nel cassetto della direzione artistica veronese dopo la prima cancellata nell’ottobre del 2020 a causa dell’epidemia di Covid. Fortunatamente non archiviata in via definitiva l’opera si ripresenta finalmente quest’anno nel cartellone 2023 e, nonostante alcune rocambolesche sostituzioni (tenore e direttore, niente meno), vede finalmente la luce dopo un parto che ci immaginiamo complesso e travagliato almeno quanto misterioso.
Ne è valsa la pena?
Indubbiamente sì, anche se con i dovuti distinguo.
Certamente l’opera è il perfetto esempio (ed in questo consiste il suo principale motivo di interesse) di come in quel momento storico il movimento della Scapigliatura milanese cercasse di muoversi concretamente, al di là di polemici pamphlet atti solo ad irritare quei depositari del vecchio in musica (sic!) che poi, come nel caso del maturo Verdi, avrebbero poi contribuito a sostenerne concretamente la fama, l’uno quale librettista l’altro come direttore d’orchestra.
Spinti dal desiderio di creare una forma d’arte alternativa che superasse le convenzionali forme chiuse in vista dello sviluppo di un discorso più fluido e unitario (perenne desiderio di ogni innovativo movimento artistico nella storia dell’uomo) che potesse porsi come esempio di nuovo melodramma, Boito e Faccio si misero così di buona lena per realizzare qualcosa che dovesse proporre un messaggio più eterogeneo e drammaturgicamente diversificato. L’obiettivo era molto ambizioso ed il risultato ambito giunse solo in parte.
Il libretto, accuratamente intagliato da Boito intorno al dramma Shakespeariano (a cui è molto fedele) , tradisce un disinvolto uso della parola stessa e, giocando anche con le terzine dantesche ad un sulfureo e disinvolto gioco con una rima molto spesso declinata in modo pungente, raggiunge spesso l’obiettivo anche se il più delle volte esplode in tali tracotanti eccessi da risultare quasi risibile. Dispiace che la Fondazione non abbia pubblicato il libretto in quanto questo, proprio per la varietà dei temi (citazioni letterarie, argute provocazioni al pubblico e mille altre diversificate variabili) potrebbe davvero offrirsi quale oggetto di analisi e studio e lo meriterebbe, non tanto per la sua qualità letteraria (ripeto a tratti zoppicante) quanto soprattutto quale importante documento di stile e di una modalità di pensiero e di azione a lui conseguente.
Il tentativo di Boito diventa invece più rilevante quando l’autore si mette alla ricerca di una forma narrativa maggiormente aperta e fluida che, per quanto ancora ferma a quella struttura chiusa tanto deprecata, cerca di spingersi al di là e di scendere sotto la superficie dello sterile scatto polemico giungendo ad un esito che a tratti spiazza quando non smarrisce.
Franco Faccio presentò il suo lavoro in prima a Genova nel 1865 con un buon successo di pubblico (che si diceva però composto da scapigliati claquer milanesi) per poi rimaneggiarlo (spia che qualcosa in effetti non aveva funzionato) in vista della successiva presentazione alla Scala di Milano nel 1871 dove però cadde senza alcuna pietà.
Che fosse a causa della scarsa efficacia di Tiberini quale Amleto (e non facciamo fatica a crederlo data la temibile parte a lui dedicata) o dell’effettivo difficoltà di una partitura parca di melodie che portava da un lato ad un difficile ascolto ma dall’altro apriva la strada quasi al Novecento, di certo il compositore ne fu annientato, tanto da ritirare definitivamente l’opera e dedicarsi alla direzione d’orchestra.
Di certo il lavoro è multiforme e si presta a differenti chiavi di lettura, la versione presentata a Verona è l‘edizione critica a cura di Anthony Barrese per Casa Ricordi Milano, frutto di un pastiche delle due versioni genovese e milanese e forse, in questo contesto, una rilettura definitiva sarebbe stata preferibile anche se, immagino, di ancor più complicata attuazione.
La prima parte della partitura sembra ancora impostata su di uno stile antico, quasi un collage di temi noti (molto Verdi) e un po’ sballottata al contatto con i ruvidi versi tronchi di Boito su cui Faccio cerca di innestare suoni che sembrano giungere da un altro contesto musicale e sociale (nel Brindisi di Gertrude compaiono quasi le note di un valzer viennese) con un potente effetto straniante. La seconda sembra invece conquistarsi una nuova dimensione, atta a costruire quadri potentemente drammatici, su tutti quello della marcia funebre di Ofelia con i tombaroli che fanno da contraltare grottesco al lutto generale e che sembra davvero schiudere prospettive di diverso spessore nell’ambito della drammaturgia musicale.
Lo spettacolo veronese era affidato al regista Paolo Valerio che ha svolto il suo compito con rigore e professionalità estrema giungendo ad un risultato più che buono.
Giocando sul concetto di partitura ed in particolare sull’evanescenza di questa (che non conosce ancora una veste unitaria) Valerio ne imposta la presenza ad ogni apertura di quadro, quasi un velario che a tratti scorre insieme alla musica. Lo spazio scenico è poi caratterizzato da un intelligente uso di proiezioni che, lontano da effetti pirotecnici, gioca al servizio della scena e, in particolari tratti, definisce momenti di bella suggestione estetica (follia di Ofelia). Molto interessante inoltre il quadro del delitto di Gonzaga, dove il metateatro gioca con se stesso attraverso un gioco di fili che riduce ogni attore a marionetta.
Un buon lavoro dunque, funzionale al dramma al quale si affianca con fascino e misura.
Molto ben scelto nel suo complesso il cast artistico.
Angelo Villari si è disimpegnato al meglio in questa parte assai difficile per il tenore proprio a causa del modo in cui è stata scritta in quanto, insistendo sul passaggio di registro, richiede estrema sicurezza tecnica ed una rotondità nel suono che risulti morbida ed omogenea. Sempre adombrata da un sottile ed impalpabile strato di nebbia l’interpretazione di Villari riesce bene ad esprimere il tormentato animo del principe di Danimarca e, senza inutili eccessi, giunge a tratteggiarlo con maturata professionalità ben definendone lo spessore drammatico.
Molto bene anche la Geltrude di Marta Torbidoni, abilissima nel caratterizzare, e non solo vocalmente, il suo tormentato e sempre bifronte personaggio femminile così come Damiano Salerno Verona risolto il suo personaggio.
Positive anche le prove di Alessandro Abis quale Orazio, di Saverio Fiore nel ruolo di Laerte e di Abramo Rosalen quale Spettro particolarmente loquace (è impegnato anche in un singolare terzetto con Amleto e Geltrude nel III Atto).
Completavano efficacemente il cast: Francesco Leone (Polonio), Davide Procaccini (Marcello), Enrico Zara (Un Araldo / Il Re di Gonzaga), Marianna Mappa (La Regina), Nicolò Rigano (Luciano), Maurizio Pantò (Un Sacerdote) e Valentino Perera (Primo Becchino).
Ottimo il lavoro del Coro della Fondazione diretto da Roberto Gabbiani.
Giuseppe Grazioli alla guida dell’Orchestra della Fondazione dipanava la possente partitura con giusta professionalità ma con non altrettanto approfondimento.
Sala abbastanza gremita nel suo insieme e grande successo di pubblico per questa prima rappresentazione italiana di un’opera su cui, credo, non sia ancora detta l’ultima parola.
Silvia Campana