VERONA: Nabucco – Giuseppe Verdi, cast a confronto 15 – 17 agosto 2023 a cura di Silvia Campana
Arena di Verona,15 luglio (Premiere) e 17 agosto
Come giusto omaggio allo scomparso regista veronese Gianfranco De Bosio durante la stagione del centenario areniano è stata ripresa la sua produzione di Nabucco del 1991 (già riproposta anche nel 2015) con le scene di Rinaldo Olivieri: un classico esempio di allestimento che, per quanto onesto e professionale, resta ancorato al periodo della sua ideazione ed anche allora, in realtà, era apparso un po’ monocorde.
Vivo solo attraverso le quinte scenografiche di Olivieri questo Nabucco si risolve in un dedalo di fregi pseudo-babilonesi (civiltà che gli spettacolari costumi fantasiosamente veicolano) concentrandosi soprattutto sulla visione di una torre di Babele, ispirata al celebre dipinto di Pieter Bruegel il Vecchio, che sembra rappresentare la potenza di un conflitto che trascende l’umano: questa, soprattutto nella scena finale, rimanda infatti efficacemente ad un immaginario che, muovendosi in contesto estetico e teatrale, ben esprime la possanza del dramma verdiano, imponente nella sua semplice ed efficace teatralità.
Detto questo, gli interminabili e macchinosi cambi scena non facevano che appesantire un allestimento di cui, con tutta sincerità, non si avvertiva la particolare mancanza a differenza di quello, di ben diverso impatto drammatico, creato da Arnaud Bernard nel 2017 ed inspiegabilmente sparito dai cartelloni scaligeri.
L’opera verdiana era presente con quattro recite e interpreti tanto differenti quanto interessanti. Nelle due serate da me seguite si manteneva salda come Abigaille il soprano Maria Josè Siri mentre cambiava integralmente il resto del cast.
Nabucco, com’è noto, è un personaggio ostico e particolarmente infido in quanto oscilla costantemente sia nella sua scrittura vocale sia nella sua definizione drammatica tra due prospettive umane completamente differenti che contemplano da un lato la definizione di un tiranno implacabile e crudele e dall’altro di un padre amoroso e dalla piagata e sensibile emotività.
Verdi definisce assai bene entrambe, com’è suo costume, soffermandosi con estrema felicità sul versante più intimo del personaggio, difficile dunque per un artista tratteggiarlo totalmente nella sua complessità.
Sono stati chiamati a questo compito in Arena due dei baritoni sicuramente più apprezzati oggi sui palcoscenici internazionali, Amartuvshin Ekbath e Luca Salsi, che hanno offerto due ritratti del personaggio eccellenti ma assai diversi.
Dotato di una vocalità praticamente immune da pecche tecniche, Ekbath cesella attraverso il timbro prezioso un tagliente profilo al tiranno ed una dolente rassegnazione all’uomo sofferente, allontanandosi un po’ da una visione paterna ed intima e spostando il conflitto alle più alte e mistiche sfere. Così il suo “Dio di Giuda” e la relativa cabaletta si pongono quale tormentata riflessione culminante in vigoroso e rinnovato impeto, siglando un‘interpretazione sempre calibrata, musicale e di potente drammaticità.
Più aderente all’umano sentire il Nabucco presentatoci da Luca Salsi. Eccessivo nei furori bellici quanto negli abbacinanti narcisismi, il suo personaggio non conosce tentennamenti né pietà finché la sua tracotanza non lo porterà alla rovina. Da quel momento tutto cangia e ciò che rimane é la semplice, tormentata sofferenza di un uomo colpito che lo porta a ritrovare il suo perduto cammino, partendo non dalla fede ma da un amore più umano e terreno, quello per sua figlia. C’è poca spiritualità in questo re e molta umanità ritrovata, e forse Verdi proprio questo ricercava.
Concentrata sulla dimensione lirica del suo personaggio, l’Abigaille interpretata da Maria Josè Siri si mostrava decisamente più a suo agio a contatto con il suo aspetto più intimo (“Anch’io dischiuso un giorno” , “Su me , morente”) a scapito della sua dimensione più guerriera che anche un uso non così preciso delle agilità contribuiva a penalizzare.
Quale Zaccaria si alternavano Alexander Vinogradov e Rafal Siwek mostrando entrambi bella compostezza, morbida vocalità e giusta sensibilità espressiva.
Impegnati quale Ismaele il corretto Matteo Mezzaro e l’irruente Riccardo Rados si portavano con corretta professionalità.
José Maria Lo Monaco e Vasilisa Berzhanskaya hanno ben caratterizzato Fenena, risolvendo in modo corretto, ognuna con la propria vocalità, l’insidiosa romanza finale “Oh dischiuso”.
Completavano il cast Gianfranco Montresor (Gran Sacerdote di Belo) e Elisabetta Zizzo (Anna) mentre Riccardo Rados (15 luglio) e Carlo Bosi (17 agosto) si alternavano quale Abdallo.
Molto bene il Coro della Fondazione (impegnato a bissare ogni sera l’immancabile “Va, pensiero“) diretto da Roberto Gabbiani.
Alla Première Daniel Oren ha mostrato di tenere saldamente in polso l’orchestra areniana, regalando una lettura ricca, palpitante e mai banale della partitura che, attraverso la monocorde bacchetta di Alvise Casellati, impegnato in bruschi ed ingiustificati cambi temporali, perdeva invece compattezza e drammaticità espressiva e cromatica.
Arena sostanzialmente gremita ed applausi per tutti gli interpreti ed i Direttori.
Silvia Campana